«nelle gioie non ti esaltare troppo e nel dolore non ti avvilire troppo
conosci il Ritmo che governa la vita dell’uomo»
Archiloco, fr. 67
Ma porca di quella …!
Un giapponese, ci giurerei. Se c’è una cosa a cui non m’abituo è essere risvegliato la mattina da una raffica di flash sparati negli occhi. Eppure è scritto dappertutto. Macché, ogni giorno la stessa storia. Ora arriverà il custode a chiedergli di smettere. Ma fra 10 minuti, scatterà il flash di qualcun’altro. E così per tutta la giornata, fino a sera.
Quell’uomo così serio, vestito di tutto punto e tutto di nero … Giurerei di averlo già visto, forse tre, forse quattro anni fa. Se ne era rimasto per ore in queste sale ad osservarci uno ad uno con quel suo sguardo acuto. Poi scriveva alcuni appunti su un quaderno sgualcito. Un professore? O uno scrittore, forse? Di sicuro un vedovo del passato — come li chiamo io: nostalgici di un tempo che non potrà tornare mai più.
Oh, oh, ma guarda là, guarda là! Che visione affascinante … I neri capelli che cadono in riccioli sulle spalle e sul petto (tornito come marmo), gli occhi cerulei, le braccia di candida neve, le caviglie sottili. E come si muove! Pare danzi, tale è l’armonia delle sue membra. Ah, se soltanto fossi più giovane di uno o due millenni! Allora potrei curvare il busto verso di lei e sussurrarle dolcemente i versi del Poeta:
«Davanti a te m’inchino, signora: sei divina o mortale?
Se dea tu sei, Artemide certo per bellezza e grandezza
e portamento mi sembri.
Ma se tu sei mortale, tre volte beati il padre e la madre.
Ma soprattutto beatissimo in cuore chi ti otterrà in sposa …»
Chi resisterebbe? Certo, con una veste lunga sarebbe più elegante. Eppure, va detto!, anche queste minigonne hanno i loro pregi… L’unica cosa è che mi sento sempre in imbarazzo quando mi girano intorno, facendo rimbombare i passi, e devo starmene immobile, come fossi di pietra.
Poi svoltando l’angolo si dileguano nel nulla, come dee, senza neanche un addio, goodbay, aufwiedersehen … E io allora ripiombo di nuovo nella mia solitudine, a inseguire i soliti pensieri.
Solitudine, ho detto?!
Quando il sole sale a picco nel cielo, è il momento delle comitive. Le sento da lontano: il pullman che frena e parcheggia sulla ghiaia, il sibilo della porta che si apre, poi il vociare che cresce a poco a poco, fino a quando si riversano nelle sale come un fiume che gorgoglia. Alla fine si crea un brusio indistinto di lingue diverse, di accenti di donne, uomini e bambini e mi succede una cosa strana: è come se sentissi la voce del Tempo, la voce di mille generazioni, che si inseguono, si accavallano e si incrociano in una spirale senza fine. E io mi lascio ipnotizzare da quel suono. Fino a quando le grida di un bambino o il litigio di una coppia esasperata mi riportano alla realtà. Ed ecco, li rivedo tutti ai miei piedi, guardarmi con occhi stupiti e sognanti; con mille pensieri diversi, con le loro vite strappate a posti lontani, tutti differenti eppure tutti uguali (è uno dei miei passatempi preferiti, risalire da un minimo dettaglio all’essenza delle persone); lì tutti ai miei piedi, mentre ascoltano le parole della guida, sempre le stesse, con la stessa intonazione.
No, cari signori, non mi ha scolpito quel famoso artista, «come pensa il tale studioso», né quell’altro «come pensa il tal’altro famoso studioso». Quanto al senso della mia vita, se permette, è stato (ed è tuttora) più ricco e complesso di quanto pensiate.
E poi, non è per vanità, ma gradirei maggiore precisione nella datazione. Ho 2532 anni, cari miei, né cento di più né cento di meno.
A volte mi sembra impossibile. Mi sembrano passati in un soffio, proprio come questa giornata (l’aria rinfresca, finalmente, e si torna a respirare). Certo, ho avuto in sorte un destino eccezionale. Da questo piedistallo ho contemplato le vicende degli uomini e del mondo: una ruota che gira senza pausa, un fiume che perpetuamente scorre. Ho visto generosi slanci dell’anima e della mente e guerre terribili, con terribili violenze (più volte io stesso sono stato rapito e deportato); ho visto nascere imperi grandiosi e poi trasformarsi fino a scomparire. E altre mille cose che voi umani non potreste immaginare. Tutto questo succede secondo un ritmo impercettibile, ma ferreo e implacabile, che ho imparato a sentire distintamente. Perché se osservata da questo piedistallo la vita non è che un’altalena di riso e di pianto, un pendolo di Odio e Amore: le aurore illuminano le tenebre, ma subito l’ora del tramonto tornerà ad uccidere i nostri giorni. Come adesso, che il sole va scomparendo e tutto il cielo si colora di un rosso intenso e luminoso.
Da qui posso vedere una parte della costa e del mare. E mai questa vista mi è così gradita, come quando scende la sera. Chiuse le porte dietro l’ultimo visitatore, il silenzio è dolce e perfetto; e i miei pensieri, rasserenandosi, vagano nel buio della notte fra le stelle lontane. In momenti come questo, mi interrogo sul senso della mia vita. E molto, in realtà, ancora mi rimane misterioso. Ma una cosa c’è, che ho capito e che vorrei dire a quanti da lontano giungono al mio cospetto, e con lo sguardo m’interrogano come un oracolo: a quella ragazza, al vecchio professore, al fotografo giapponese … Ho capito quale deve essere nel respiro del cosmo il posto che spetta agli uomini:
«nelle gioie non ti esaltare troppo e nel dolore non ti avvilire troppo
conosci il Ritmo che governa la vita dell’uomo»
E quel ritmo, negli anni, ho imparato a percepire.
Per questo me ne sto così, come immobile in apparenza, in apparenza come insensibile a quanto vedo succedere. Eppure, dentro di me, godo del fluttuare in questa inquieta corrente, dell’osservare, del sentire, stando saldo, la forza divina della vita.
E di questo, serenamente, sorrido.
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