Segugi dell’invisibile. Storie di cani sulla tomba dei padroni (parte II)

Quale che sia la sua interpretazione, la stele dell’Ilisso celebra il legame fra il defunto e il suo cane sulla soglia della morte – e al di là di essa. Si tratta di un motivo ricorrente nell’arte funeraria di ogni epoca, che ha ispirato altri capolavori. Uno dei più emozionanti è a Lucca, nella penombra della cattedrale di San Martino: il monumento ad Ilaria del Carretto che Jacopo della Quercia finì di scolpire nel 1407.
Di certo, la presenza del piccolo molossoide ai piedi della padroncina doveva suggerire all’incantato visitatore l’idea di fedeltà assoluta: «… e a’ piedi d’essa fece un cane di tondo rilievo, per la fede da lei portata al marito», scriveva Vasari. Ma il cagnolino è scolpito con troppa arte per restarsene a cuccia nel mondo dei simboli. Così prende la scena per diventare soprattutto se stesso: un cane ai piedi di una padroncina che, stranamente, se ne rimane immobile, con gli occhi chiusi, le mani incrociate sul seno. Osservandolo meglio, nel suo sguardo e nella sua postura pare di vedere un aspetto particolare della fedeltà e dell’amore canino: l’attesa incondizionata. Del resto, che ne sa lui, che la sua padroncina è morta? Per quanto lo riguarda, Ilaria sta dormendo – magari un po’ troppo a lungo, un po’ troppo profondamente. Vorrebbe che si risvegliasse subito, è evidente, ma si guarda bene dal disturbarla: non è più un cucciolo, conosce i suoi doveri e sa che è lì per aspettarla. Ed è questo che farà, potete giurarci – dovesse pure, nel frattempo, diventare di pietra.
Non occorre però scomodare la mitologia del cane che aspetta per anni il ritorno del padrone defunto: lasciamo da parte il famoso Hachiko, lo scozzese Greyfriars Bobby o il toscanissimo Fido – tutti gratificati dei loro bei monumenti. No, basta guardarsi attorno. Chi non si è intenerito per la scena di un cane che aspetta illimitatamente il padrone – davanti al supermercato, nell’auto sperduta in qualche parcheggio o sulle scale di casa? Chi non è stato colpito dalla loro espressione in quei momenti?

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Che è, appunto, la stessa espressione del cane di Ilaria (e Jacopo).
Così questo capolavoro dell’arte funeraria diventa al tempo stesso un monumento a quell’atto supremo di fedeltà e di amore che è l’attesa incondizionata.
In altri casi, però, la presenza di un cane sui monumenti funebri ha a che fare più da vicino con il nostro tema dei “segugi dell’invisibile”. Alcune culture, infatti, gli affidarono il compito di psicopompo, cioè di guida dei morti nell’Aldilà: famoso è il caso dell’egizio Anubi. Dio dell’oltretomba (come il greco Ade), rappresentato ora come cane tout-court, ora con fattezze umane ma testa di “sciacallo”, era lui che, tenendo in mano la luna, illuminava il cammino ai defunti fino al tribunale supremo degli dèi. È certo allora che, nel mondo senza luce di cui era signore, gli sarà stato oltremodo utile il prezioso naso di cui si è detto, capace di vedere nell’invisibile.

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Tomba di Sennedjem (1350 a.C.), un sacerdote con la maschera di Anubi termina la mummificazione.

Anubi, gli psicopompi, il cammino nell’oltretomba sulle orme di un cane… Mi affascina sempre constatare come idee che sembrano sepolte in un passato lontanissimo, siano invece pronte a germogliare nella mente e nella fantasia di noi moderni. Penso ad una bella pagina di Curzio Malaparte in cui mi sono imbattuto di recente. Il grande scrittore cerca di immaginare come la morte potrà modificare il rapporto con Febo, il suo amatissimo cirneco dell’Etna:
«… mi lascerà per sempre. Non tornerà più. Resterò solo accanto al fuoco, il libro aperto sulle ginocchia, e non avrò il coraggio di volgere il viso verso la porta aperta. Ma sono certo che Febo, a un tratto, mi chiamerà di lontano. Il suo latrato stanco mi chiamerà dal fondo della notte. Ed io so che gli andrò dietro, per seguire il suo e il mio destino. Ci allontaneremo sotto la luna, nell’erba alta, lungo il fiume, e Febo abbaierà contento: così ce ne andremo tutti e due, come due vecchi amici, come due cari fratelli, ruzzando e rincorrendoci, in quel felice gioco senza ritorno» (da “Febo, cane metafisico”).

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Curzio Malaparte a Lipari (1934-35)

Chi avesse desiderato comprendere meglio in che senso si possa attribuire a un cane la funzione di “psicopompo”, non troverà parole più chiare e più belle.

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