Una delle cose che invidio al mare degli antichi – oltre alle acque incontaminate e alle spiagge prive dell’odore dolciastro di creme solari – è il politeismo. Se si può, con un pizzico di panteismo, grazie.Per noi nuotare è principalmente attività fisica: tecniche e stili, tempi di percorrenza, l’ultima moda in fatto di costumi e accessori … Ma quale nuotatore non annovera fra i momenti indimenticabili della vita un “bagno mistico”? Essere in acqua alle prime luci dell’alba o nel crepuscolo, l’acqua come velluto fresco e denso sulla pelle, appena increspata in superficie da sussurri di vento … con la sensazione di fondersi ad ogni bracciata nella natura, di essere un solo respiro con l’universo.
È proprio qui che scatta l’invidia: non potere dare un nome a quell’esperienza. Non potere dire: «oggi nuotavo accanto a una ninfa – Teti, Leucotea, Anfitrite – o nell’abbraccio di Oceano “in cui tutto sfocia” o Poseidon», come invece facevano gli antichi.
Fuori dalla mistica: quanto meno profondo, da un punto di vista ’psicologico’, è il nostro incontro con la natura rispetto a quell’affollato pantheon di dèi, semidei, ninfe … che vi scorgevano l’occhio e la mente di un greco antico. Tutto questo solo per introdurre la storia dell’unico tuffatore che possa contendere a Saffo la vittoria nella categoria “tuffi famosi dell’antichità”.
Per incontrarlo bisogna recarsi a Paestum ed entrare al Museo archeologico. Qui infatti è esposta l’opera che, in pochi decenni (il suo ritrovamento risale al 1968), è diventata un’icona pop del mondo antico: la tomba del tuffatore.
In un paesaggio idilliaco, un giovane si è lanciato da quello che sembra un trampolino. Ora fluttua leggero nell’aria, un istante prima di immergersi in uno specchio d’acqua curvo e ondulato – probabilmente mare aperto.
Se l’affresco provenisse da una palestra o dalla villa di qualche notabile dell’epoca (VI a.C), diremmo soltanto: «Che eleganza in questo gesto sportivo!», oppure: «ritratto del capostipite dei Cagnotto». Ma il fatto eccezionale in quest’immagine è che abbelliva la lastra di copertura di una tomba: era cioè pensata come l’estremo orizzonte di un defunto. Ecco allora che entra in gioco il significato simbolico del gesto, che qui di certo evoca la liberazione dell’anima dal corpo e il misterioso passaggio verso i fondali dell’Aldilà.
Alcuni studiosi, però, hanno cercato di andare oltre. Probabilmente – hanno ipotizzato – il defunto doveva essere un iniziato alle dottrine orfiche (molto diffuse in Magna Grecia in epoca arcaica). E qui la cosa sostanziale da dire è che, per quello che sappiamo, l’orfismo fu la prima ’religione’ del mondo greco a promettere agli iniziati la sopravvivenza dell’anima oltre la morte. E che dunque, in quei secoli, la figura di Orfeo doveva essere più simile a quella di Cristo che non all’innamorato romantico (perfetto per operette e musical) che è diventato in seguito.
Forse, tuttavia, non è prudente pensare a un aldilà orfico come meta ultima del tuffatore di Paestum. E non è nemmeno necessario. In fondo per capire il senso catartico dell’immagine basta pensare a quanto dicevo all’inizio. Basta cioè ricordarsi che, per un greco antico, un tuffo rappresentava comunque un viaggio verso un mondo divino: una dimensione ultraterrena in cui incontrare Teti, Leucotea, Oceano. O addirittura Poseidon.
Il che mi ricorda una bella frase di Arthur Miller, nel suo bellissimo libro di ambientazione greca – Il colosso di Marussi:
«Dio ha pensato a tutto in anticipo. Noi non dobbiamo risolvere nulla. Tutto è stato risolto per noi. Dobbiamo soltanto liquefarci, dissolverci, nuotare nella soluzione. Siamo pesci solubili e il mondo è un acquario.»
A proposito! A volte, in riferimento al nostro eroe, si dice o si sente dire: “il Tuffatore di Paestum”, ma è un errore per il semplice fatto che, nel VI a.C., Paestum ancora non si chiamava così. All’epoca dei fatti narrati era ancora una colonia greca chiamata – pensate un po’ – Poseidonia: città sacra, appunto, al dio cui è dedicato questo post.
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