Polifemo, l’adolescenza e quegli shottini di troppo

Nell’avventura di Odisseo con i Ciclopi, il modo più ovvio di interpretare la “mostruosità” di questi ultimi è quello letterale /distopico. Se ti avventuri ai confini del mondo rischierai di trovare creature dis-umane fino al punto di comportarsi come Polifemo. Più sottile e affascinante l’interpretazione di tipo diacronico, per cui i Ciclopi rappresenterebbero il fossile di uno stadio di umanità ormai sorpassata – quella pastorale e nomade rispetto a quella agricola e ormai urbanizzata.
Oltre ad essere inconfutabili, simili interpretazioni presentano un grande vantaggio: collocare la “mostruosità” di quell’incontro in un tempo o in uno spazio “altro da noi”, così da non farci sentire troppo coinvolti in prima persona.
Esiste invece un’interpretazione “sincronica”? Esiste, cioè, un Ciclope che convive vicino a noi – nel nostro tempo e/o nel nostro spazio – se non addirittura dentro, nel pluriverso spazio-temporale della nostra psiche?

Così ho riletto il meraviglioso IX libro dell’Odissea tenendo in sottofondo il brusio di un telegionale (faccio per dire). E quando sono arrivato alla parte sul consumo inconsapevole dell’alcool mi è sembrato di vedere con una certa chiarezza chi (ancora oggi) si cela sotto la maschera del gigante monocolo: ebbene, signore e signori, il Ciclope è la raffigurazione dell’adolescenza vista dall’uomo adulto – il suo carro di carnevale grottesco e mostruoso. Più precisamente la “mostruosità” di Polifemo è la raffigurazione di tutti i pericoli che l’uomo adulto avverte in quell’età delicata, sia perché li vive nel contatto quotidiano con i figli (o gli “allievi”), sia perché li ricorda (più o meno vagamente) dentro se stesso.

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Ma sì, pensateci un attimo!
Cos’è – innanzitutto – quel corpo gigantesco del Ciclope, quella sua forza bruta e gratuita se non la crescita biologica che irrompe in chi fino a poco prima era solo un bambino, ubriacandolo di entusiasmo da una parte, di varie angosce dall’altra? In quella fase, sotto quella spinta incontenibile della natura e della vita, anche la persona più pacifica può essere spinta ad atti ’violenti’, per esibire o soltanto mettere alla prova la nuova identità.
E quella voce cavernosa e grossa che viene fuori all’improvviso?
«Così disse e a noi si spezzò il caro cuore / dalla paura di quella voce pesante …»
E il famigerato “antro di Polifemo”? Quella penombra, quel disordine, quell’odore di chiuso e di pet, quella porta sempre infallibilmente chiusa … ci sono forse così lontani da non ritrovarli nelle camere dei nostri figli/allievi – mancano solo i poster di Fedez e Lady Gaga?
E quel morboso attaccamento a cibi “insani” e “barbari” – o almeno che tali appaiono all’immaginario gastronomico di un adulto?
«… non somigliava a un uomo mangiatore di pane …»
E poi – last but not least – la solitudine di Polifemo! Anche all’interno del “branco” degli altri Ciclopi, quella solitudine che si consuma nel suo antro – nella strutturale incapacità di accogliere “lo straniero”:
«Qui un uomo aveva tana, un mostro, che greggi / pasceva, solo, in disparte, e con gli altri / non si mischiava, ma solo viveva …»
Per poi tornare alla questione da cui tutto è partito: il dolorosissimo punto del consumo inconsapevole di alcool.

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A scadenze regolari compare sui media qualche studio statistico sull’uso (e l’abuso) di alcool fra i minori: età d’ingresso che s’abbassa, comportamenti a rischio che salgono … Non dobbiamo aver paura di questi dati? Non dobbiamo sentirci impotenti?
«Disse e s’arrovesciò cadendo supino e di colpo giacque / piegando il grosso collo di lato: lo vinse / il sonno che tutto doma: e dalla gola vino gli usciva / e pezzi di carne umana; vomitava ubriaco …»
Significativa in questo senso anche la punizione inflitta al Ciclope – cioè l’accecamento. Va sottolineato che “Omero”, in effetti, non si sogna nemmeno di stigmatizzare in sé il consumo vino. Nella cultura greca – è ben noto – un uso consapevole — “da adulto” — di quella bevanda acuisce i sensi e la vista, consentendo l’accesso al mondo divino di Dioniso. Al contrario un uso inconsapevole acceca; acceca l’ignoranza e/o il mancato rispetto delle regole con cui bisogna avvicinarsi a quella potente bevanda.
Con le conseguenze terribili che tutti conosciamo – per esempio quando un cieco si mette al volante nel cuore di un sabato sera.

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Se poi questi spunti esegetici vi sono sembrati poco rispettosi del contenuto letterale del testo omerico e dunque della società che vi si riflette, ricorderò che importanti (e affascinantissimi) studi hanno dimostrato la centralità del “rito di passaggio” nel percorso educativo delle società arcaiche, compresa quella greca – penso ai lavori di Brelich, Vidal-Naquet e Burkert. In particolare, per quanto riguarda la ritualizzazione del passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, varie fonti attestano l’uso di sottoporre gli adolescenti a un periodo di “segregazione rituale”: ragazzi e ragazze (separatamente) venivano condotti in un posto ai confini della società (un bosco, una montagna o un’isola, appunto) dove dovevano affrontare un periodo di apprendistato, con prove di vario tipo, riguardanti forza fisica e disciplina ma anche (verosimilmente) sesso e consumo di bevande alcoliche. Solo alla fine di questo periodo potevano fare ritorno in società ed essere inseriti con ruolo di adulto.
Se facciamo riferimento a questo quadro, Polifemo ci appare allora, come l’adolescente che, avendo fallito il suo rito di passaggio, resta tristemente confinato nel suo mondo selvaggio e “preculturale”.

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