Negli anni, quante volte sono tornato in Grecia, ai suoi siti archeologici e alle sue rovine, alle sue isole e al suo mare? Sempre con quella sensazione di nostos verso la propria casa.
Eppure a Delo – che gli antichi Greci consideravano il loro ombelico culturale, alla pari di Delfi – non avevo mai messo piede: un po’ perché ancora adesso è un’isola a statuto speciale (dove possono dormire solo gli archeologi che vi lavorano), un po’ per casualità, un po’ per una qualche resistenza inconscia. Invece questo settembre eccola finalmente profilarsi al mio orizzonte, l’isola sacra in cui nacque Apollo:
«Delo, vuoi tu essere la dimora di mio figlio
Febo Apollo, e avere in te un tempio ricchissimo?
Altrimenti, credo proprio che nessuno verrà qui
a onorarti: non sei adatta per armenti e greggi,
né a produrre messi o alberi da frutto.
Ma se ospiterai il tempio di Apollo arciere,
tutti gli uomini si riuniranno qui a offrire
sacrifici di cento buoi, e profumo di pingue carne
si leverà senza fine»
(Inno omerico ad Apollo, vv. 51-60)
Eppure non ero per nulla emozionato quando, verso le 18:15 di una giornata di luminosità meravigliosa, la Blue Dolphin (o come si chiamava) mi ha scaricato insieme ad altri turisti sulle sponde dell’isola. Anzi provavo un’indifferenza strana e quasi sospetta: forse, mi dicevo, perché le strade di Mykonos (da dove la nave salpa) non rappresentano certo la preparazione ideale a quel tipo di viaggio; o perché il giorno dopo mi aspettava il volo di ritorno; o forse semplicemente perché, negli anni, si impara a frenare aspettative troppo alte, per evitare poi delusioni troppo intense.
Fatto sta che, aggirandomi sulla tanto vagheggiata isola, mi sono ritrovato a osservarne le rovine con indifferenza, se non addiritura con fastidio.
La “via sacra”, la stoà meridionale, il tempio degli Ateniesi e quello di Artemide … Sì tutto bello, certo; ma la verità era che qui cercavo qualcosa di più e di diverso – e se no, che isola sacra sarebbe? Poi i leoni di Nasso, la palestra, lo stadio, il santuario di Afrodite, quello di Zeus e Athena, il Serapeion – bellissimi certo, eppure …
E dunque niente, anche qui tutto era andato come sempre: processioni di sacerdoti tronfi bardati a festa, convenzioni e divieti, strette di mano fra ricchi e potenti, pellegrinaggi di un’umanità semplice e bisognosa, bancarelle di souvenir e street food… Poi tutto, lentamente, era stato cancellato dal tempo, fino a questo settembre e a questa Blue Dolphin che scarica qui turisti impazienti di tornare alla frenesia di Mykonos e delle sue discoteche.
Fra questi cupi pensieri eccomi all’entrata del museo. E qui – per la prima volta – mi sono scoperto ad infastidirmi della povertà ai limiti della trasandatezza dell’arredo museale, invece che a godere di quei capolavori, per di più avvolti nella luce miracolosa del crepuscolo.
Così verso le 19:30, quando già mi avviavo a tornare al moletto, ero deluso come non mi era mai capitato al contatto con una nuova isola greca. Deluso e anche un po’ rassegnato: fra poco avrei fatto ritorno al delirio vacanziero di Mykonos; il giorno dopo sarei entrato nel non luogo dell’aeroporto per salire sul solito volo low cost … Tutto come al solito, insomma: nessun miracolo neppure in quell’isola sacra, nessun messaggio o svelamento.
Ricordo, a quel punto, di aver visto un gatto rossiccio materializzarsi da dietro qualche capitello e di aver pensato, chinandomi ad accarezzare quella creatura così meravigliosamente indifferente (e superiore) a tutto:
«Che sia lui il mio maestro su questa isola, il mio guru personale in mezzo a tanta storia ed arte?»
Quindi, staccandomi a malincuore dalla sua pelliccia calda di sole, mi sono incamminato verso il santuario degli dèi della Siria – facendo non so quale collegamento con la terribile situazione delle rovine moderne.
Chi qui ci è già stato, sa che questi resti si trovano alle pendici della collina che domina l’isola. E lì, distrattamente, ho visto la sagoma di un turista che s’inerpicava su un sentiero nascosto e ripidissimo, che sembrava dire, con quella sua ripidezza: «Via! Via, state lontano di qui, voi mortali».
Ho guardato l’orologio, ho guardato la posizione del sole e mi sono detto che sì, c’era ancora il tempo per salire; e che un po’ di fatica fisica avrebbe forse scacciato il mio malumore. Così, dopo aver salutato un altro animale comparso fra i sassi e più simile a un’iguana che non a un’enorme lucertola, mi sono avviato.
Passo dopo passo il fiato si appesantiva, ma dentro qualcosa si alleggeriva. Passo dopo passo mi lasciavo le rovine della storia alle spalle e mi avvicinavo invece a qualcosa che non muta mai.
Ogni amante della montagna sa a cosa mi riferisco. Eppure lì, a Delo, ciò che provavo mi sembrava diverso. Non ero ancora in cima quando ho visto due ragazze orientali scattarsi l’immancabile selfie.
Ho solo sbirciato che cosa c’era dietro di loro – l’infinito che s’apriva dietro quel selfie – perché volevo tenermi tutto lo spettacolo per quando sarei stato in cima. Ma qualcosa, anche solo sbirciando, già era entrato dentro di me, cambiandomi del tutto l’umore. Pochi passi ed ero in cima, con il cuore che batteva: “Sei pronto?”, mi sono detto, e ho risposto alzando gli occhi all’orizzonte, e beandomene a 360° gradi, con incerti passi tutto intorno.
Al centro di ogni religione, sepolto sotto paramenti e copricapi improbabili, sotto incomprensibili dogmi e limitatezze umane, c’è eppure qualcosa che le accomuna tutte, poiché attinge a una zona sensibile e nascosta dentro di noi: l’insopprimibile bisogno di una qualche forma di “estasi” – da intendersi letteralmente, nel senso cioè di superamento dell’io/uscita da noi stessi.
Poiché questa zona è per eccellenza il regno dell’ineffabile, a parlarne e a sperare di descriverla si corre il rischio di mettersi a balbettare cose insensate, come diceva Jacopone da Todi parlando del suo jubelo del core. Quello che posso dire però, tornando a Delo, è che lassù, davanti a quel meraviglioso orizzonte, per quei pochi secondi, io c’ero in mezzo, beatamente sprofondato.
No, certo che non ho visto né Apollo né la sorella Artemide né nessuno degli altri moltissimi e svariatissimi dèi che, nei secoli, furono visiting gods di quest’isola. Ma ho avuto la percezione netta che la sacralità di quel luogo c’entrava con il sentimento vago (ma fortissimo) che stavo provando; e che, dunque, quella mia esperienza, in qualche modo misterioso doveva avere a che fare con il fatto che, millenni fa, lì era nato e si era sviluppato un culto.
Tuttavia questa riflessione (più vicina a un sentimento che non a un ragionamento) portava con sé altri due corollari, non meno vertiginosi.
Mentre, sporgendomi di sotto, verso l’antica città, vedevo davanti a me un quadro icastico, nella luce del tramonto, di come anche le cose che furono più grandi e famose nell’alveo del tempo a poco a poco scompaiono e tacciono; guardando all’orizzonte mi rendevo invece conto che il mio “sentimento di Delo” era lo stesso che poté provare un povero pellegrino, tremila anni fa: il mare, la fuga delle isole all’orizzonte, il tramonto, quel silenzio così eloquente … E non c’è una forma di immortalità nel sentire le stesse cose provate da un proprio simile tremila anni prima? Forse le stesse che proverà, fra altri tremila anni, qualche umano sperduto nello spazio?
L’altra deduzione, invece, mi riportava all’attualità del nostro mondo. In un atlante geo-politico del terzo Millennio, il termine “religione” si declina – in modo innegabile – attraverso alcune delle principali piaghe che affliggono l’umanità (con il terrorismo islamico a fare da punta dell’iceberg). Tuttavia pur sempre a quel termine mi era necessario ricorrere per dare una vaga cornice a quel “sentimento di Delo”: amorevole fraternità con le koreane che avevano smesso di fotografarsi e con i pochi altri turisti vicino a me; sentimento del sublime davanti a tanta bellezza; gratitudine e smarrimento per il grandioso spettacolo offerto da Madre Natura; leggerezza dovuta al (pur momentaneo) oblio di quell’io ipertrofizzato che ci tortura con le sue continue richieste di selfie e di “quarti d’ora di fama” – e che è uno dei più caratteristici frutti della nostra civiltà dell’immagine.
Beh, se la religione è anche questo – è lo è, sotto i paramenti e gli integralismi, sotto la solita volontà di potenza e di affermazione – è qualcosa di grandioso e salvifico; qualcosa di meravigliosamente … umano.
Ho respirato un’ultima volta l’ebbrezza di quell’altezza spirituale. Poi con un lieve sorriso mi sono risvegliato: d’accordo, torniamo fra i discopub di Mykonos, torniamo giù nel mondo, alle elezioni di Trump e della Clinton, al referendum di Renzi e di Grillo.
Eppure qualcosa di più c’è – ne sono certo: anche se nessuno, in migliaia d’anni, ha saputo dirci cos’è.
P.S.: Una volta a casa, ho trovato fra i miei libri la testimonianza di qualcuno che – davanti al cielo e al mare della Grecia – aveva provato qualcosa di molto simile a questo “sentimento di Delo”:
«Sull’alta veranda di Marussi, mentre la luce degli altri mondi cominciava a diffondere il suo splendore, io colsi la vecchia e la nuova Grecia nella loro morbida trasparenza e così esse mi rimangono nella memoria. Capii in quel momento che non c’è vecchio o nuovo, c’è solo la Grecia, un mondo concepito e creato per l’eternità»
Henry Miller, Il colosso di Marussi
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