Il kouros che sorrise a Virginia Woolf

Il 17 settembre del 1906 la ventiquattrenne Virginia Woolf, insieme alla sorella Vanessa e all’amica Violet Dickinson, sale la strada che porta all’Acropoli di Atene, rimanendo abbagliata dalla luce riflessa da tutti quei marmi e dalla bellezza del Partenone “di gran lunga il più imponente di tutti i templi”. Forse anche il caldo fa la sua parte, di modo che poco dopo le tre amiche – “in una sorta di intorpidimento, come se qualcosa di troppo grande per poterlo comprendere avesse reso le nostre menti incapaci di esprimersi” – decidono di ridiscendere alla base della collina e di rinfrescarsi nel museo archeologico. Ma è come passare da una sindrome di Stendhal (se mi si passa il termine) all’altra. Qui infatti, la scrittrice ha la visione folgorante di una statua che oscura le altre come – direbbe Saffo – la luna, apparendo, oscura tutte le altre stelle: si tratta del cosiddetto “efebo di Crizio“, sulle cui labbra la Woolf coglie ancora il mistero del cosiddetto ’sorriso arcaico’.

efebodiCrizio

«Al suo interno si trova forse la cosa più bella che abbiamo visto finora. La testa del ragazzo con i capelli intrecciati, che le guide definiscono vagamente arcaico. Ma la bocca sembrava fosse stata scolpita solo quel mattino, con le sue linee morbide e delicate. Un momento, però: la pietra era anche immortale.
Le belle statue hanno uno sguardo mai visto sul volto dei vivi, o forse solo di rado, come di serena immutabilità; ecco un modello durevole come la terra, o meglio che sopravviverà a tutte le cose tangibili, perché una tale bellezza ha un’essenza immortale. E questa espressione su un volto che per il resto è giovane e morbido ti fa respirare un’aria più leggera: è come il bacio dell’alba»

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