Nella Sala XVI del Museo c’è uno dei vasi forse non più spettacolari del mondo antico ma fra i più commoventi. Proveniente da Pithecoussai (Ischia) appartiene al periodo arcaico (fine VIII sec. a.C.) e offre una delle prime rappresentazioni del dramma di un naufragio: il relitto sottosopra, i cadaveri che fluttuano tra pesci di ogni dimensione – oppure ne vengono divorati …
Nella didascalia posta sotto a questa opera d’arte s’immagina di recuperare almeno qualche misero relitto della vita e dell’arte dell’artista che la dipinse.
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«La tecnica di Icario di Eubea si distingue per la sua squisita vocazione alla rappresentazione realistica ed evocativa di situazioni naturalistiche. Un tema, in particolare, compare nei suoi lavori con frequenza che non è eccessivo definire ossessiva: la vita sui fondali marini. In moltissime delle sue ceramiche, infatti, anzi direi nella stragrande maggioranza, è descritta tale situazione. E allora ecco sulle pance dei pithoi, sulle anse e sui fondi delle coppe, vivacissimi disegni di delfini, di polpi e cavalli marini, oppure di alghe fluttuanti nelle correnti; ma anche creature mitologiche e – sinistramente realistici – scheletri di navi e e naviganti, e sparsi relitti dei loro naufragi.
Chi ha avuto la fortuna di conoscere di persona questo artista sostiene che l’ispirazione va senza dubbio ricondotta ad una drammatica esperienza biografica. Circa trent’anni fa, infatti, mentre dall’Eubea s’era messo in viaggio insieme alla famiglia per trovare altrove migliore fortuna, la sua nave fece naufragio al largo della nostra Pithecoussai. Purtroppo, dopo tre giorni e tre notti in balia del mare, Icario fu l’unico dell’equipaggio a raggiungere la riva e la salvezza.
Anche a distanza di tanti anni, l’esperienza di quella tragedia evidentemente non è stata dimenticata: e così quell’ossessione si è trasformata nella più fedele Musa della sua arte, forse nella speranza di un’impossibile catarsi.»