Sbarco a Patrasso: ovvero breve trattato sulla felicità

Dei mille libri di viaggio ispirati alla Grecia Il colosso di Marussi di Henry Miller è senza dubbio uno dei preferiti, per la sua forza vitalistica, per la nitidezza e la profondità del suo sguardo su uomini, cose e paesaggi.
Lo scrittore, già da tempo in fuga dall’America dove era nato e dal suo tronfio materialismo, nel 1939 sceglie di fuggire anche da Parigi e dall’Europa, ormai sull’orlo del baratro, e di rifugiarsi nella terra del mito, invitato dall’amico Lawrence Durrell.
L’arrivo ad Atene e la spettacolare visione dell’Acropoli è forse il preludio della folgorazione ma ancora non è la scintilla. Questa si accende invece poco dopo, la sera in cui il piroscafo dello scrittore entra nel porto di Patrasso.

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«La seconda sera di viaggio attraccammo a Patrasso, di fronte a Missolungi. Da allora sono venuto varie volte in questo porto, sempre intorno alla stessa ora, e sempre ho sentito lo stesso fascino. Si punta dritto su un gran promontorio, simile a una freccia infissa nel fianco della montagna. I lampioni del lungomare creano un effetto giapponese; c’è qualcosa di improvvisato nell’illuminazione di tutti i porti greci, qualcosa che dà l’impressione di una festa imminente. Quando si entra in porto si vedono arrivare le barche, piene di passeggeri e bagagli e bestiame e masserizie. Gli uomini remano in piedi, spingendo invece di tirare. Sembrano instancabili, manovrano a volontà i pesanti remi con svelti e quasi impercettibili movimenti del polso. Quando accostano si scatena un pandemonio. Tutti vanno nel verso sbagliato, tutto è confuso, caotico, disordinato. Ma mai nessuno si perde o si fa male, niente viene rubato, non volano pugni. È una sorta di fermento che nasce dal fatto che, per un greco ogni evento, per quanto trito, è sempre eccezionale … “Perdio, sì, mi piace”, mi dissi e ridissi mentre stavo al parapetto osservando il trambusto e la baraonda. Mi curvai all’indietro e guardai il cielo. Non avevo mai visto un cielo così. Era magnifico. Mi sentivo completamente distaccato dall’Europa. Ero entrato in un nuovo regno da uomo libero; tutto si era combinato per rendere quell’esperienza straordinaria e fruttifera. Cristo, ero felice. Ma per la prima volta in vita mia ero felice con la piena consapevolezza di essere felice. È già bello essere semplicemente felici e basta; è un po’ meglio sapere che sei felice; ma capire che sei felice e sapere perché e come, in che modo, per quale concatenazione di eventi o di circostanze, e tuttavia essere felice, essere felice in fatto e in conoscenza, questo, ecco, va oltre la felicità, è una beatitudine, e se hai un po’ di sale in zucca dovresti ucciderti all’istante e farla finita. Ecco com’era; salvo che io non ebbi la forza o il coraggio di uccidermi su due piedi. E del resto fu meglio così, perché sarebbero venuti momenti anche più straordinari, qualcosa perfino al di là della beatitudine, qualcosa che se avessero cercato di descrivermelo probabilmente non ci avrei creduto. Allora non sapevo che un giorno mi sarei trovato a Micene, o a Festo, o che una mattina mi sarei svegliato e guardando da un oblò avrei visto con i miei occhi il posto di cui avevo scritto in un libro ma che non sapevo esistesse né che avesse lo stesso nome che gli avevo dato nella mia immaginazione. Cose meravigliose ti capitano in Grecia; buone cose meravigliose che non possono capitare altrove sulla terra. In qualche modo la Grecia rimane sotto la protezione del Creatore, quasi che Egli annuisse. Anche in Grecia accade agli uomini di darsi d’attorno per le loro meschine, inutili preoccupazioni, ma la magia di Dio è ancora all’opera qua; e qualunque cosa faccia o cerchi di fare la razza umana, la Grecia è ancora un sacro recinto; e credo che tale rimarrà fino alla fine dei tempi.»

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