Ho capito, rileggendolo, perché ho un debole per Il colosso di Marussi, rispetto a tanti altri diari di viaggio in Grecia: perché Henry Miller, per qualche caleidoscopica trasmigrazione d’anime, è più greco di un greco – lo vedrei bene seduto vicino ad Archiloco, poeta e guerriero a un tempo, o addirittura come un Tersite schierato fra gli altri Achei sotto Ilio. Più di tutto lo si capisce dalla vibrante intensità con cui vive e racconta gli elementi naturali: le rocce, le nuvole, la vegetazione, un platano, e il mare, naturalmente.
Nella descrizione di questa tempesta, per esempio, mi pare di vedere rinascere, in tutta la sua potenza e grandiosità, l’antico dio Poseidon: quello che ostacolava il nostos di Odisseo oppure che, nel finale dell’Ippolito di Euripide, assunto l’aspetto di un mostro marino, travolgeva il carro del protagonista lanciato a tutta velocità sulla strada parallela al litorale.
«Ci eravamo già mossi e filavamo lungo la riva. Quando prendemmo il largo, una violenta raffica di vento ci colpì in pieno. Il greco lasciò il timone per ammainare le vele. “Ma tu guarda” disse Katsimbalis. “Questa gente è matta”. Mentre il greco finiva di ripiegare le vele rasentammo pericolosamente gli scogli. Il mare era grosso, davanti a noi c’era una massa tumultuosa di creste biancheggianti. Cominciai a capire quanto era infuriato vedendo i valloni in cui ci tuffavamo con terrificante rapidità.
Ci voltammo istintivamente al timoniere per cogliere sul suo viso un raggio di speranza, ma il viso era impassibile. “probabilmente è pazzo”, disse Katsimbalis, e in quella un’onda si infranse sopra di noi e ci inzuppò fino alle ossa. L’inzuppata ebbe un effetto tonificante. Fummo ancora più tonificati dalla vista di un piccolo yacht che si veniva avvicinando. Era appena più grosso della nostra venzina e andava pressapoco alla stessa velocità. Fianco a fianco, come due cavalli marini, le barchette s’impennavano e precipitavano. Non avrei mai creduto che una fragile barca potesse reggere un mare simile. Quando scivolavamo in fondo a un vallone l’onda incombente ci sovrastava come un mostro dalle zanne bianche pronto a piombarci addosso a pancia avanti. Il cielo somigliava al rovescio di uno specchio, con un sordo bagliore di metallo fuso che il sole tentava invano di penetrare. Verso l’orizzonte c’era un andirivieni zigzagante di lampi. Ora le onde cominciarono a batterci da ogni parte. Bisognava mettercela tutta per reggersi all’albero con due mani. Vedevamo chiaramente Spetses, gli edifici lividi come se avessero vomitato le budella …»
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