Spinalonga – piccola isola fortificata all’imbocco del golfo di Mirabello (Creta) e dunque non lontana da quell’Elounda già ricordata nel nostro Portolano – non è un’isola qualsiasi nella storia dell’Egeo nè, di riflesso, in quella della letteratura.
Per la sua particolare collocazione e per le caratteristiche di inaccessibilità ebbe una grande importanza militare per i molti secoli in cui queste acque furono dominate dalla Repubblica di Venezia. Quindi, all’inizio del XX secolo, per quelle stesse caratteristiche venne utilizzata per ricoverarvi – o meglio rinchiudervi – tutti i malati di lebbra della vicina Creta. Con queste sinistre caratteristiche, non meraviglia che sia divenuta location di un romanzo che è stato il caso editoriale di qualche estate fa:
Ma qui ne parliamo per avere ispirato quello che a me pare uno dei racconti più belli della letteratura italiana del Novecento: Spinalonga, contenuto nella parte finale del ricordato Sagapò di Renzo Biasion.
2.
È l’estate del 1943 e, dopo una lunga marcia nell’interno di Creta, un drappello di soldati dell’esercito italiano arriva ad accamparsi sulla costa proprio di fronte all’isola:
«Il mare era tanto bello da dare gioia a guardarlo. Il cielo non mai solcato dalla più piccola nube. E nei giorni che il vento si calmava, benché subito l’afa rendesse i corpi sudati e fiacchi, scaldando le pietre in modo che scottava toccarle, era piacevole aggirarsi tra gli scogli o sedere nel lungo crepuscolo a fumare le sigarette acquistate di contrabbando durante la marcia. Di fronte a noi, abbastanza vicina, si vedeva un’isola. Fosse illusione ottica o il gran desiderio che avevamo di alberi e di verde, quest’isola ci pareva tutta ricoperta da una vegetazione lussureggiante. Come sullo scoglio non c’era acqua e l’andare a prenderla diventava una vera marcia dovendo ogni volta imbastare due muli, a noi pareva che laggiù l’acqua dovesse scorrere a torrenti. E se c’era una nube nel cielo, si formava sempre sopra quell’isola. Che vidi sulla carta chiamarsi Spinalonga, forse derivando il nome dalla sua forma allungata e puntuta. Spinalonga si alzava dalle acque con tre punte sottili che la facevano sembrare, nei giorni di foschia, un grande veliero fermo nella bonaccia»
In queste condizioni, sull’orizzonte delle attese e delle pulsioni più profonde dei soldati, Spinalonga diviene un’isola di sogno. E quelle stesse pulsioni trasformano ogni cosa che la riguarda in realtà sovrasensoriali — simboli profondi capaci di attrarre le anime degli uomini come le mitiche sirene: gli uccelli marini che la sorvolano, le valli e i dirupi intravvisti appena, gli alberi immaginati carichi dei frutti più dolci. La stessa acqua del mare:
«Pareva che l’acqua l’aggirasse in un molle abbraccio, carezzandola silenziosamente da cima a fondo, anche quando invece contro la costa infuriava con onde violente e fragorose»
Era dunque quella, l’isola dei beati che, in un angolo del nostro cuore, non possiamo fare a meno di vagheggiare e rincorrere sempre?
«Non pareva esistere per noi felicità pari a quella di poter approdare a Spinalonga»
Ma come arrivarci, allora? Due volte al mese, i nostri soldati si vedono passare proprio sotto al naso una motobarca tedesca che, partendo da Elounda, si dirige all’isola dei sogni. Ma i tedeschi — notoriamente bastardi anche quando alleati — non si fermano mai a caricarli: anzi, dall’imbarcazione si sbracciano vistosamente per tenerli lontano e dissuaderli. Cosa di cui vengono maledetti in ogni modo e ripetutamente. Costruire una zattera per tentare l’impossibile – come avrebbe fatto, ai suoi tempi, Odisseo? Ma i tempi sono cambiati e questa soluzione viene subito scartata. Finche, per una serie di circostanze ’fortunate’, un pescatore indigeno chiamato Andrullacis si offre di accompagnare alla tanto vagheggiata meta la voce narrante e alcuni compagni estratti a sorte. Così, in un’aspettativa spasmodica di felicità, inizia il viaggio verso l’isola beata:
«… la vela della piccola scialuppa si gonfiò al vento dei nostri sogni, balzando sulle tremule onde come sospinta dall’impeto di canzoni guerresche»
Fino a quando, compiuta la breve traversata, si disvela ai naviganti la cruda realtà dietro ai loro sogni:
«Andrullacis calò la vela e allungò i remi nell’acqua. Sopra le rocce vedemmo due uomini distesi a terra. Dormivano e non si mossero. L’isola dunque, benché piccola era popolata. Ma quando giungemmo alla spiaggia prima ancora di avvicinarci capimmo dagli improvvisi e imperiosi gesti di Andrullacis, che aveva voltato la prua della barca, di che specie di popolazione si trattava»
Sì, perché anche durante la guerra e poi fino al 1957, Spinalonga fu l’isola in cui le autorità deportavano i malati di lebbra; i quali, poi, cercavano di crearsi condizioni di sopravvivenza nella spettrale fortezza veneziana. Tuttavia, anche davanti a questa orribile presa di coscienza, la voce narrante non ordina la ritirata al nocchiero e ai suoi compagni: come un novello Odisseo, brama sentire il canto di quelle Sirene di morte per lebbra. Così il povero Andrullacis viene costretto a un lento costeggiamento dell’isola:
«Sulla spiaggia un gruppo di uomini e di donne ci guardava, forse attendendo che sbarcassimo o che buttassimo loro qualcosa. Stavano fermi come cariatidi. Poi, vedendoci allontanare, tutti insieme allungarono le braccia verso di noi. Molti avevano ricoperto le piaghe con degli stracci, penzolanti fino a terra»
Fino alla sconvolgente visione finale:
«Più oltre scorgemmo un uomo completamente nudo, che al nostro passaggio si rizzò a sedere. Era orribile a vedersi, con la faccia distrutta. Sopra la nostra testa volteggiavano pigramente i meravigliosi uccelli che ogni tanto arrivavano fino allo scoglio. E nei gridi lamentosi che lanciavano anche la loro bellezza diventava illusoria. Quell’uomo, quando passammo, ci sorrise e allora io stesso voltai il timone»
E in questo dolce sorriso su uno dei volti ormai marchiati dalla morte rinveniamo uno dei migliori finali di racconto a me noti – con una forza sconvolgente, ma non gridata, degna del miglior Cechov, o di Carver:
«E quel sorriso anche ora è qui davanti a me, e mi basta chiudere gli occhi per rivederlo»
3.
Renzo Biasion, ancora prima di essere scrittore, era pittore e insegnante di belle arti. E non c’è dubbio su quale immagine doveva avere davanti all’occhio della mente – accanto ai ricordi – mentre scriveva questo breve e indimenticabile racconto: la Toteninsel di Böklin:
Di quel quadro, infatti, il racconto mi pare la più riuscita trasposizione letteraria, non tanto per la sovrapponibilità di alcuni particolari ma soprattutto per l’atmosfera emotiva generale — soprattutto per la sconvolgente compresenza di bellezza e orrore che domina entrambe le opere.
Vedremo del resto che, secondo molti, fu proprio un isolotto greco ad ispirare . lo scenario del quaro di Böcklin. Non Spinalonga però: e dunque ce ne occuperemo in un altro post.
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