La sala del Museo Immaginario dedicata al mito del labirinto è uno spazio da hangar, o il solaio di un’immensa casa colonica poco abitata, o piuttosto l’ufficio oggetti smarriti di qualche enorme stazione – un labirinto essa stessa, comunque, dove è dato trovare davvero di tutto, da una bipenne cretese a un cellulare smarrito in metropolitana.
Impossibile, dunque, procedere per ordine, qui dentro: ci si avvicina, per caso o intuizione, al reperto che più ha attratto la nostra attenzione (e chissà che tutto questo non funzioni come un oracolo). Una delle teche più belle, di certo, contiene un’opera del grande cantore cieco del Novecento: no, non Stevie Wonder, ragazzi, ma l’argentino Jorge Luis Borges. Come è possibile, chiederete, che un non vedente ritragga in modo degno di un museo un luogo così caratteristico e il mostro che lo infestava? La risposta è semplice: certe cose (le più profonde) si vedono meglio con l’occhio della mente.
Labirinto
Non ci sarà sortita. Tu sei dentro
e la fortezza è pari all’universo
dove non è né diritto né rovescio
né muro esterno né segreto centro.
Non sperare che l’aspro tuo cammino
che ciecamente si biforca in due,
che ciecamente si biforca in due,
abbia fine.È di ferro il tuo destino,
così il giudice . Non attender l’urto
del toro umano la cui strana forma
plurima colma d’orrore il groviglio
dell’infinita pietra che s’intreccia.
Non esiste. Non aspettarti nulla.
Neanche nel nero annottare la fiera.J. L. Borges (da Elogio dell’Ombra)
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