Notte di mare, musica e guerra: un po’ di luce su Archiloco da un diario della seconda guerra mondiale

L’educazione sentimentale che fatalmente ci plasma negli anni del liceo ruota di solito intorno a due cardini:
a) il volto (e il corpo) della persona per cui perdiamo la testa;
b) un brano di letteratura che ci folgora e ci fa dire: «ecco, è così che stanno le cose!» (magari inoculandoci il sospetto che Platone avesse ragione, con la sua teoria dell’anamnesi)
Per me il punto b. è stato il frammento 128 West di Archiloco

«Cuore, cuore sconvolto da pene senza rimedio,
alzati, difenditi dai nemici gettando avanti
il petto, nell’attesa dello scontro serrando la fila
saldamente; vincitore non ti esaltare in modo aperto,
né, vinto, devi gemere prostrato nella tua casa,
ma gioisci dei beni, e dei mali affliggiti
senza eccedere; riconosci quali ritmo governa gli uomini»
(trad. Antonio Aloni)

«Ecco, è così che stanno le cose!», mi dissi in effetti, quel giorno lontano in cui per la prima volta questi versi. Di modo che, con questa invocazione al cuore e con lo svelamento del “ritmo” che governa le vicende umane, Archiloco – il “poeta-guerriero”, che conosceva al tempo stesso i doni di Ares e quelli delle Muse – è entrato con forza straordinaria non solo nella mia mente  ma anche nella mia vita.

archilochus1
Il che non vuole dire che abbia amato gli altri frammenti superstiti del poeta di Paro né, tanto meno, che li abbia compresi. Per esempio, non ho mai capito né il senso né la rilevanza poetica del frammento 2 West – e dunque l’utilità di farci arrovellare sopra il mio povero cervello di adolescente:

«sul legno della nave è impastato il mio pane, sul legno il vino
d’Ismaro; sul legno bevo disteso»
(Trad. Antonio Aloni)

Infinite discussioni filologiche per capire se δορυ vada tradotto “lancia”, “legno” o “nave” – e il frammento continuava a non trasmettermi proprio nulla. Né le cose miglioravano avvicinandogli il fr. 4 West, come faceva in modo plausibile Bruno Gentili, considerandoli cioè parte della stessa elegia:

«Dài, muoviti con la brocca fra i banchi della nave veloce
e leva i coperchi agli orci capienti,
attingi vino rosso, sino alla feccia: perché noi di sicuro
non potremo restar senza bere durante la veglia
»
(Trad. F. Montana)

Macché, ancora nulla che mi colpisse davvero — nessun nuovo contributo per il “mio Archiloco”.
E invece ecco che, a distanza di molti anni, mi imbatto in un libro che finalmente illumina quei testi, emozionandomi. Ma non si tratta, questa volta, della ricerca di un filologo. In un diario di un italiano che partecipò alla battaglia di Creta durante la seconda guerra mondiale (ne ho già parlato qui) ho letto la commovente vicenda di un soldato italiano su un’isola greca che, alla vigilia di una battaglia, si trova di notte su una nave, insieme ai suoi commilitoni intenti a consolarsi della loro condizione con la razione di cibo e di vino, ma soprattutto con il “dono delle Muse”: la musica e la sua poesia.
E finalmente potevo vedere la scena immensamente umana e poetica cui, molto probabilmente, dovevano alludere quei versi di Archiloco.

Baldi-Egeo

Grazie a quella pagina, dunque, aumentava il volume del “mio Archiloco”; e una volta di più, trovavo la conferma di un aspetto fondamentale della letteratura, di quando fiorisce e si sviluppa in una società, e di quando invece declina e muore: e cioè che la sua bellezza davvero sta sempre nell’occhio di chi la legge.
Ecco il brano:

«La luce rossastra, bruciante, di quel crepuscolo di primavera avanzata durò a lungo prima di trapassare quasi irresistibilmente nell’ombra stellata della notte. Uno spicchio di luna dava un tocco oleografico alla bellezza del paesaggio marino. I soldati a bordo, sbollite le precedenti scalmane, sembravano essersi placati: messo mano alla loro razione di scatoletta e galletta se la mangiarono in un attimo e poi attaccarono a cantare. Cantavano con toni strascicati, lamentosi, vecchie canzoni di guerra, come La morte del capitano, Il ponte di Bassano, Faccetta nera, oppure, essendo in maggioranza meridionali, i più noti motivi del repertorio napoletano: ’O sole mio, Torna a Surriento e così via. Andarono avanti a cantare per un pezzo, finché esausti e sonnolenti, si buttarono a dormire, ammonticchiati l’uno sull’altro, nei ristretti spazi delle barche. Solo qualche voce solitaria resistette ancora un poco, roca per lo sforzo, poi alla fine si spense in un gorgoglio sommesso. Calò allora sul convoglio un silenzio meraviglioso, incantato, rotto solo dal quieto, ritmato stantuffare dei motori e dallo sciabordio dell’acqua contro i fianchi delle barche. Il mare, calmissimo, era percorso da infiniti, mobilissimi luccichii, che ne rendevano la superficie luminosa, fantasmagorica, come se vi si svolgesse una magica féerie... »
(Gianni Baldi, Dolce Egeo, guerra amara, Milano 1988)

 

 

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