Edgar Lee Master — che compirebbe oggi 149 anni — è l’autore di un libro di poesie famoso e fortunato (a differenza del suo autore) che mi colpì moltissimo quando lo lessi la prima volta e che, da allora, mi capita spesso di scomodare dal suo scaffale: l’Antologia di Spoon River, la cui versione definitiva fu pubblicata 101 anni fa.
Ecco il famoso incipit.
La collina
«Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
il debole di volontà, il forte di braccia, il buffone, l’ubriacone, l’attaccabrighe?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.
Uno morì di febbre,
uno bruciato in miniera,
uno ucciso in una rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli –
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina»
[traduzione di Alberto Rossatti]
Come noto, si tratta della ricostruzione della vita di un paesino americano orchestrata, però, attraverso il sorprendente espediente letterario della narrazione attraverso gli epitaffi dei protagonisti: di modo che a parlare, di fatto, sono i fantasmi dei defunti ubriaconi, attacabrighe, farmacisti, oculisti, notai …
… o malati di cuore:
Francis Turner
«Non potevo correre o giocare
da ragazzo.
Da uomo potevo solo sorseggiare dalla coppa,
non bere – perchè la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Ora giaccio qui
confortato da un segreto che nessuno tranne Mary conosce:
c’è un giardino di acacie,
di catalpe, e di pergole dolci di viti –
là quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary –
baciandola con l’anima sulle labbra
all’improvviso questa prese il volo»
Espediente letterario sorprendente, ho detto, ma non originale. Fra le opere che ne influenzarono la genesi ci fu di certo l’Elegia su un cimitero di campagna di Thomas Gray (1716-1771). A noi però interessa soprattutto il (profondo) debito che, nello scrivere la sua Antologia, Masters contrasse con la letteratura greca e, in particolare, con un’opera che già nel titolo svela la derivazione: l’Antologia Palatina. Tale debito è evidentissimo — in quanto strutturale — soprattutto se si considera il settimo dei quindici libri di cui consta la silloge. Poiché, infatti, qui sono raccolti gli epigrammi funebri, molto spesso ci si imbatte in poesie molto simili a quelle riportate sulle lapidi del cimitero di Spoon River — soprattutto quando compare il topos dell’invocazione al passante.
Famoso l’epigramma in cui Leonida di Taranto ritrae l’ubriacona Maronide (VII, 455)
“Qui sta la vecchia ubriacona Maronide.
Rovina delle bottiglie di vino.
Sulla sua tomba c’è un calice attico,
simbolo noto a tutti. Si lamenta
anche sotto terra: non per i figli
o il marito lasciati senza nulla.
Piange solo per il calice vuoto.”
Non meno bello questo di Meleagro per un ragazzo morto troppo giovane.
«Diciott’anni avevi, Carisseno, quando tua madre
ti compose nel mantello funebre, pietoso dono per Ades.
Ahi, piangevano anche le pietre mentre i compagni
da casa gemendo trasportarono il feretro.
Canti di lutto, non di nozze, i genitori gridavano:
“Ahi ahi, le vane grazie dei seni, l’inutile
dolore del parto! Moira sterile, vergine crudele,
tu hai sputato ai venti l’amore d’una madre”.
A chi ti fu amico resta il rimpianto, ai genitori il lutto,
a chi ti conosceva l’avere pietà del tuo fato»
Particolarmente sorprendente e toccante, l’epitafio — sempre di Leonida — “per un piccolo amico” (VII, 198). Leggendolo, si scopre trattarsi di un animaletto particolarmente caro all’ignota Filenide, che tanto gli volle bene da dedicargli una sepoltura full optional, per così dire. Non un cane, né un gatto, però, ma (qui la sorpresa) un grillo:
«O viandante, sebbene minuscola ed umile al suolo
sia questa sepolcrale pietra che mi ricopre,
uomo, tu devi lodare Filenide; poi che a me grillo
canterino, saltante prima su le siepi,
volle bene due anni, tenendomi sopra un fuscello,
e godeva felice del mio trillo soporoso.
Né pure quando morii, mi respinse; ma sopra mi eresse
quest’esile ricordo delle mie cantilene»
Comunque, che Masters, debba avere amato l’Antologia greca al di là degli spunti che gli fornì per l’opera lo si capisce anche dalle molte citazioni riferibili non solo al VII libro. Nel sopra citato “Francis Turner”, per esempio, gli ultimi due versi sono un’evidente ripresa del finale di un epigramma attribuito addirittura a Platone:
«Avevo l’anima sulle labbra, mentre baciavo Agatone.
S’era presentata, la sventurata, come per traghettare»
Mi congedo con una veloce impressione ricavata alzando lo sguardo da Spoon River al presente. Da American Beauty di Sam Mendes, ad Amabili resti della Sebald, attraverso alcune serie televisive e addirittura spot pubblicitari (sebbene di pubblicità progresso), alcune delle narrazioni più interessanti e capaci di colpirci sono venute da voci narranti di defunti.
è solo un caso, o una moda del momento — o c’è forse qualcosa di più a giustificare un successo che, a quanto pare, viene molto da lontano?
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