“Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee” di Emile Benveniste (1902-1976) è un libro stupefacente e grandioso per intelligenza e dottrina, un monumento della linguistica storica che ripaga dell’ovvia difficoltà della lettura con lo spettacolo unico del contemplare, nella storia di una parola, il caleidoscopio di secoli di evoluzione di costumi, idee, pensieri all’interno di una società.

è un libro in cui, addentrandosi con guida esperta e affidabile sulle tracce sempre più labili di parole sanscrite, greche e latine, il lettore può scoprire perché un’antica radice * kred fu in grado di generare concetti fondamentali sia per la religione (“credere”) sia per l’economia (“credito”); o perché un termine come “superstizioso”, che un tempo indicava una supremazia (colui che sta sopra), di colpo viene capovolto in qualcosa di negativo.
Riaprendolo, un paragrafo mi ha particolarmente colpito — per la sua attualità e per la mia sensibilità alla minaccia dei corsi e ricorsi della storia. Riguarda le radici delle nostre parole “ostile” e “ostilità”. Chiaramente esse ci derivano dal latino hostis/hostilis: “nemico”; e parlano, dunque, di una continuità di significante-significato durata millenni.
Ma in latino, avverte Benveniste, “hostis” non ha sempre individuato la sfera del “nemico”. Fonti arcaiche (addirittura la Legge delle XII tavole) testimoniano invece l’accezione di “straniero”. E nemmeno uno straniero qualsiasi, cioè un “peregrinus”; ma piuttosto qualcuno che, fra i latini, ci arrivava con diritti riconosciuti e pari a quelli degli indigeni (è infatti attestato in Plauto un verbo “hostire” nel senso di “uguagliare” ). Del resto, commenta Benveniste, proprio il significato di “straniero accolto, ospitato” sta alla base della radice indoeuropea *ghostis, da cui “hostis” proveniva (si pensi all’inglese “guest” o al tedesco “Gast”). Ancora un completo rovesciamento di senso, dunque? E cosa sarebbe successo, per giustificarlo?
«Più tardi, quando alle relazioni di scambio tra clan e clan sono subentrate le relazioni di inclusione o di esclusione dalla civitas, hostis ha assunto un’accezione negativa e ha preso il significato classico di ‘nemico’ (da cui deriva, per esempio, la parola italiana ostile), e in tal senso la storia di hostis riassume il cambiamento che le istituzioni romane hanno attraversato nei secoli»
Detto così suona scientifico e dunque asettico. Ma quello che si cela dietro questa metamorfosi semantica è un processo storico crudele, che apre scenari sinistri e sanguinosi. Per rendere l’idea arrischio una ricostruzione di quel processo ai nostri tempi: magari semplificando ed esagerando un po’; ma soprattutto sperando tanto di di sbagliarmi.
Roma, 1980. In questa società, il termine “rifugiato” non ha valenze negative, anzi. Esprime solidarietà e compassione: un certo orgoglio in chi offre ospitalità e riconoscenza in chi la riceve. Esprime, insomma, la consapevolezza per cui il diritto delle genti, al di sopra di ogni confine, deve prevedere il “dare un rifugio” a chi ne è rimasto privo.
“Rifugio”, del resto, è una parola dalle sfumature positive, non a caso molto amata e utilizzata in poesia.
Senza contare che dare ospitalità agli stranieri può rivelarsi un’opportunità per entrambi.
Roma 2017. I tempi purtroppo sono cambiati: una terribili crisi umanitaria in Africa e MedioOriente (l’ennesima) unita a una crisi economica in Occidente ha fatto sì che la parola “rifugiato” abbia iniziato ad assumere valenze sempre più negative. Taluni, ormai, la usano come sinonimo di “delinquente”, “stupratore”. Benchè ancora all’inizio il processo linguistico in atto è chiaro: l’area semantica del termine si sta sovrapponendo su quella confinante di “nemico”.
(Persino il modo di pronunciarla è cambiato: i toni sono sempre più alti, le vocali sempre più strascinate e gutturali — un po’ come se si venisse tutti da Bergamo alta (con tutto il rispetto per questa bellissima città).
Roma 2055. Purtroppo, in assenza di un cambiamento di tendenza sullo scenario umanitario ed economico, è giunto a compimento il processo linguistico di cui si diceva: “rifugiato” è dunque diventato il termine per indicare il nemico più temuto e odiato. Il problema è che la crisi mondiale ha fatto sì che anche coloro che, nel 2017, erano ancora in grado di accogliere nella loro terra, oggi sempre più spesso sono costretti ad andare a cercare fortuna in altri paesi. Come si diceva, però, essendo la crisi mondiale, succede che nel nuovo paese in cui pervengono, la gente li additi dicendo (a voce sempre più forte):
«Rifugiati!»
è il dubbio è che intendano: “nemici della peggior specie”.
Circostanza che, certo, non aiuta a stare meglio chi ha già la sventura di trovarsi in un paese straniero.
P.S.: la grandezza di Emile Benveniste come studioso si misura facilmente se si pensa che il Vocabolario va considerato un esito ‘secondario’ nella sua produzione scientifica: i maggiori contributi agli studi del Novecento, e dunque la sua fama, sono infatti legati soprattutto ai suoi studi teorici di linguistica e semiotica.
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