Un’affollata sala del Museo Immaginario è destinata a raccogliere ed esporre antiche opere d’arte che — nella realtà o (più spesso) in una dimensione fantastica — hanno legato nome e immagine a terribili eventi o leggende.
Qui ci occupiamo della “Venere d’Ille”, bronzo di epoca romana di eccezionale bellezza, ma esistito solo nella fantasia dello scrittore ed archeologo Prospere Mérimée (1803-1870). La storia si può leggere ancora nei “Racconti e novelle” tradotti da Anton Francesco Filippini (Sansoni 1966). Un “archeologo parigino” — voce narrante della vicenda — è in viaggio nella regione del Perignac: qui viene ospitato dal signor di Peyrehorade che, da pochi giorni, ha avuto la ventura di rinvenire, nei suoi possedimenti, la statua in questione.
1. Un ritrovamento eccezionale
L’innesco della vicenda è legato ad uno scavo che doveva solamente servire a sradicare un vecchio ulivo gelato ormai da tempo:
«Zappiamo ancora, zappiamo; ed eccoti che appare una mano nera, coma la mano di un morto che sbucasse da terra. Io, ho paura. vado subito dal padrone, e gli dico: “Ci sono dei morti, Signoria, sotto quell’olivo! Bisogna chiamare il prete!”. “Che morti?”, mi fa lui. Corre, e non appena scorge quella mano grida: “Un’antichità! un’antichità!”»
2. Lo sguardo
«è un idolo, vi dico. Si vede bene dall’aria che ha. Ti guarda fisso, con quegli occhioni bianchi … sembra che ti squadri in viso. Toh, chi la guarda è costretto ad abbassare gli occhi»
3. Descrizione
«Era proprio una Venere, e per giunta di mirabile bellezza. Nuda la parte superiore del corpo, come gli antichi solevano rappresentare le divinità somme; la mano destra, alzata al livello del seno, era rivolta con la palma in dentro, il pollice e le due prime dita distese, le altre due leggermente piegate. La mano sinistra, poco discosta dal fianco, sosteneva il drappeggio che copriva la parte inferiore … Comunque sia, non è possibile vedere cosa più perfetta del corpo di quella Venere, nulla di più soave e voluttuoso della sua figura, nulla di più elegante e più nobile della sua veste. Mi ero disposto a vedere qualche opera del Basso Impero; mi si parava dinnanzi un capolavoro della miglior età della statuaria»
4. Il volto
«Del volto, poi, non riuscirò mai ad esprimere il carattere strano, di un tipo non riscontrato mai in nessuna statua antica, per quanto io mi ricordi. Non era la bellezza calma e severa degli scultori elleni, i quali, per sistema, imprimevano all’intero portamento delle loro opere una maestosa immobilità. Qui, al contrario, notavo con sorpresa la chiara intenzione dell’artista di rappresentare la malizia spinta sino alla malvagità. Tutti i lineamenti erano leggermente contratti: gli occhi un tantino obliqui, la bocca rialzata agli angoli, le narici alquanto dilatate. Disdegno, ironia, crudeltà si leggevano su quel volto, raggiante tuttavia d’incredibile bellezza»
5. Lo sguardo
«Quella espressione d’infernale ironia era forse accresciuta dal contrasto degli occhi brillantissimi, incastonati d’argento, con la patina di un verde nerastro di cui il tempo aveva coperto tutta la statua. Quegli occhi lucenti producevano una certa illusione di viva realtà. Mi tornarono a mente le parole della guida, secondo cu la statua costringeva coloro che la guardavano a calare gli occhi»
6. L’iscrizione
«Mi mostrava lo zoccolo della statua su cui lessi queste parole: “CAVE AMANTEM”»
7. La vittima designata
Ecco come Mérimée descrive il sign. Alfonso Pehrehorade, figlio del proprietario della statua e in procinto di sposare una bella e ricca ereditiera:
“un giovanottone di ventisei anni, dalla fisionomia bella e regolare, ma priva di espressione. La statura e le forme atletiche di lui giustificavano appieno la fama d’instancabile giocatore di pallacorda che gli veniva fatta nella regione”

8. Il fatale errore
Il giorno stesso del matrimonio, Alonso non riesce a trattenersi da quella che è la sua vera passione: il gioco della pallacorda. Già tutto in ghingheri per la cerimonia, scende in campo per fare vincere la squadra locale in una partita improvvisata contro degli stranieri. Ma per giocare al meglio, decide di liberarsi dell’anello di brillanti destinato alla sposa, che portava al dito mignolo. E lo fa nel modo peggiore:
«Si tolse non senza fatica l’anello di diamanti. Allora mi feci avanti per tenerglielo; ma egli non m’attese e corse invece alla Venere, le infilò l’anello al dito mignolo, e riprese il suo posto alla testa dei giocatori d’Ille»
9. Come nella “Sposa cadavere” di Tim Burton
Il lettore esperto avrà a questo punto già capito la china horror che gli eventi narrati prenderanno da questo momento in poi. Il gesto avventato del nostro tennista ante litteram “magicamente” avrà il valore di un orribile e disumano matrimonio. Di modo che, da questo momento, Alfonso è legato a una sposa fatta di marmo, che vive in una dimensione non adatta ai mortaliu.
Sì quasi esattamente la trama della Sposa cadavere di Tim Burton.
Tanto più che Alfonso, nel correre dal campo di pallacorda al luogo della cerimonia, commette un ulteriore errore, che aggrava, se possibile, la situazione:
«”Che pasticcio! Mi sono scordato dell’anello! è rimasto al dito della Venere, che il diavolo se la porti via! Almeno non ditelo a mia madre! Forse non si accorgerà di niente”»
10. Inevitabile catastrofe finale
Ecco come la vicenda approda al suo triste ma inevitabile esito, nel racconto della sfortunata sposa, che tutti crederanno impazzita:
«”Allora volse il capo … e vide, dice, il marito in ginocchio vicino al letto, la testa all’altezza del guancale, tra le braccia di una specie di gigante verdastro, che lo stringeva con forza. Dice, e me lo ha ripetuto venti volte, poveretà!… dice di aver riconosciuto … indovinate un po’ … la Venere di bronzo, la statua del sig. di Peyrehorade …“»
11. L’anello maledetto, nel dettaglio
«Nel dir questo, si sfilò dalla prima falange del dito mignolo un anellone tempestato di diamanti. Il gioiello raffigurava due mani avvinte; allusione che definii estremamente poetica. Era un lavoro antico; ma giudicai cher lo avessero ritoccato per incastonarvi i diamanti. Internamente si leggevano queste parole in lettere gotiche: “Sempr’ab ti”, ossia, “sempre con te”»
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