C’era una volta un post — tanto tempo fa — in cui raccontavo il fascino di un libro dedicato a quel tipo specifico di natura morta (o meglio “vanitas”) definito “homo bulla” dagli storici dell’arte: le rappresentazioni pittoriche o a stampa, cioè, in cui la caducità della vita umana veniva simbolicamente rappresentata dalla vita breve, fragile e illusoria delle bolle di sapone.
Ecco qui un esempio (oltre alla stampa in copertina)
Ecco il post.
Ed ecco il libro.
L’autore, Michele Emmer, rintracciava la prima attestazione letteraria del topos in questo passo del Caronte di Luciano di Samosata:
«Hai veduto le bolle che si levan nell’acqua sotto la cascata di un torrente? Quelle bollicine che compongono la schiuma?Alcune di esse sono piccine e subito si rompono e svaniscono … Così è la vita degli uomini»
Ma a quanto pare è possibile tornare ancora più indietro nel tempo — circa un secolo prima: basta aprire il Satyricon di Petronio alle famose pagine della Cena Trimalchionis, in particolare alla lunga e divertente sezione in cui, atteggiandosi a uomini di cultura, alcuni liberti provano a riprodurre con i loro miseri mezzi culturali discorsi e ragionamenti filosofeggianti — nell’antica e nobile tradizione, cioè, dei simposi.
Ecco dunque quello che a un certo punto sostiene con toni drammatici un certo Seleuco (42, 1 sgg., trad. V. Ciaffi):
«Quel gentiluomo così perbene di Crisanto ha tirato le cuoia. Mi pare ancora di parlare con lui. Ahi ahi, siamo degli otri gonfi che vanno in giro! Meno che mosche siamo. Loro comunque una qualche resistenza ce l’hanno. Noi niente più che bolle siamo»
«Nos non pluris sumus quam bullae», dunque.
Ma dal tono in cui la frase è pronunciata e dal continuo scimmiottamento di “cultura alta” che contraddistingue queste pagine, possiamo essere certi che l’idea doveva risalire a molto più indietro nel tempo — e avere la paternità di un auctor molto più carismatico del pur simpatico Seleuco.
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