La verità, ditemi, sulle “grottesche”

Rileggendo il capolavoro di Michail Bachtin su “L’opera di Rabelais e la cultura popolare“, a un certo punto — fra maschere carnevalesche, buffoni, corpi grotteschi, banchetti pantagruelici e disumani e poi, a profusione, bocche e altre parti anatomiche spalancate e provocanti — mi sono ritrovato davanti al mondo meraviglioso e incantato delle “grottesche”.
Dico ritrovato perché, tanti anni fa, quando per lavoro frequentavo Palazzo Vecchio, le “grottesche” (che lì sono particolarmente diffuse e belle) erano diventate una mia riposante passione.
Opere come questa:

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o questa

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oppure questa (più “bachtiniana”)

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e tante altre ancora, una più fantastica dell’altra, che saltavano fuori qui e là come sberleffi fra un dipinto del Vasari e l’altro, nell’angolo di una camera o sui soffitti.
Nella mia mente in realtà, nonostante il nome e qualche immagine forte, mai le avevo collegate alla sfera del grottesco: troppo raffinate, mi dicevo, troppo fantastiche per entrare in quel mondo “abbassato”, volgare e degradato. Ma mi sbagliavo. E il motivo per cui mi sbagliavo, semplificando, è la grande scoperta cui Bachtin ‘obbligò’ il mondo culturale con la pubblicazione del suo “Rabelais”, giustamente famoso ed “epochemachende“: nella cultura popolare e nelle sue manifestazioni più immediate, spontanee e ‘grasse’ si nascondono in realtà radici e significati profondissimi e ‘altissimi’.

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Poche citazioni per intuire la portata culturale del tema. A partire dalla genesi del nome:

«è nell’epoca rinascimentale che appare per la prima volta il termine grottesco, inizialmente nell’accezione ristretta del vocabolo. Alla fine del XV secolo, in occasione degli scavi nei sotterranei delle terme di Tito, venne alla luce un tipo di pittura ornamentale fino ad allora sconosciuta»

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“grottesca” dalla domus aurea a Roma

«In italiano questo tipo di ornamento venne chiamato “la grottesca” dalla parola “grotta”. Un po’ più tardi ornamenti analoghi vennero scoperti anche in altre città italiane … la scoperta impressionò i contemporanei per il gioco insolito, fantasioso, e libero delle forme vegetali, animali, umane, che passavano una nell’altra e quasi si trasformavano reciprocamente»

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«Non si riscontravano quei confini netti e fissi che separano nel quadro tradizionale del mondo questi “regni della natura”: nel grottesco tali confini erano audacemente superati. Non vi si trovava la staticità abituale della rappresentazione della realtà: il movimento cessa di essere quello delle forme già date — vegetali e animali — in un mondo già dato e stabile, ma si trasforma in un movimento interno all’esistenza stessa e si esprime nella trasmutazione di alcune forme in altre, nell’eterna incompiutezza dell’esistenza. In questo gioco ornamentale si percepisce una straordinarietà e leggerezza della fantasia artistica; questa libertà, inoltre, è sentita come libertà gioiosa e quasi rident

Ma forse l’idea che più rende ragione della fascinazione per queste geniali e sfuggenti rappresentazioni sta nella definizione fornita da un autore che Bachtin cita in nota:

«… la bellissima definizione di grottesco data da L. Pinskij: “Nel grottesco la vita passa attraverso tutti gli stadi, da quelli inferiori, inerti e primitivi, a quelli superiori più mobili e spiritualizzati, in una ghirlanda di forme disparate che testimonia la sua unità. Avvicinando ciò che è lontano, mettendo in relazione ciò che si esclude a vicenda, violando le nozioni abituali, il grottesco in arte è simile al paradosso in logica”»

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