Nella nostra “società dello spettacolo” vincere in un’importante competizione sportiva conferisce all’atleta un enorme potere mediatico che può essere tradotto nei modi più diversi, persino in (enorme) potere politico.
La situazione più evidente in questo senso è quella del campione che, terminata la carriera sportiva, “scende in campo” in prima persona — con fortune maggiori o minori — nell’arena politica. Anche solo in Italia, in effetti, i casi sono molti e riguardano spesso proprio degli Olimpionici (Idem, Di Centa, Vezzalli). L’esempio più eclatante, però, va forse rintracciato nell’incredibile parabola di George Wheah, da attaccante del MIlan e del Chelsea a venticinquesimo presidente della Liberia.

Meno eclatante, invece, ma molto più frequente il caso dell’atleta le cui vittorie vengono utilizzate come “strumento di governo”: cioè che, vincendo, fa vincere (più o meno consapevolmente) il governo che rappresenta. E in effetti, se non tutta, buona parte della storia delle Olimpiadi moderne potrebbe essere riscritta anche in questa prospettiva, con gli atleti del Terzo Reich e poi quelli dei due blocchi della Guerra Fredda a guidare una parata ben più nutrita ed estesa nel tempo — e fatta anche di “insospettabili”.

Successo non minore tale binomio vittoria sportiva/politica ha avuto nell’era delle Olimpiadi antiche, per quanto ci è dato saperne. E questo non solo nell’epoca arcaica (VIII-VI secolo a.C.), contraddistinta da molti regimi ‘tirannici’, in cui cioè il consenso popolare era di importanza vitale. Ma — a riprova della sua efficacia — anche in epoche successive: tanto che uno degli episodi più clamorosi si verificò nella democratica Atene dei tempi di Socrate.
Protagonista fu Alcibiade, senza dubbio uno dei personaggi più affascinanti della storia greca. Al tempo di cui narra questa storia (gli anni della guerra del Peloponneso contro Sparta) era già un affermato leader di Atene. Ciò tuttavia non poteva bastargli: uno come lui cercava il colpo del K.O., la mossa che gli permettesse di avere ai suoi piedi tutta Atene e la Grecia. E fu anche per questo che decise di partecipare alle Olimpiadi del 416 a.C., presentandosi come armatore in una delle gare più prestigiose: quella dei carri. Che stravinse, annichilendo gli avversari come forse non era mai riuscito a nessun altro in passato (lo vedremo subito).

A questo punto, tornato ad Atene con la fama del suo exploit ad aleggiargli intorno al bel volto, Alcibiade non doveva fare altro che attendere la circostanza propizia per scendere in campo, ghermire la congiuntura politica e/o militare in cui quel successo sportivo gli avrebbe fruttato con gli interessi. Coi tempi che correvano, l’attesa non durò a lungo. L’anno dopo infatti la questione sulla bocca di tutti era se effettuare o no una pericolosa spedizione navale in Sicilia, e a chi affidarne il comando: eccolo, l’attimo che fugge, il momento per dare l’ultimo tocco ad un capolavoro politico. Così, quando l’assemblea degli Ateniesi si riunì per deliberare, Alcibiade, preannunciato da un mormorio di ammirazione, prese la parola e giocò a colpo sicuro il suo asso. Ecco il punto culminante del discorso, che è ancora possibile leggere in un passo delle Storie di Tucidide (6.15 sg.):
«Meglio che ad altri, o Ateniesi, il comando spetta a me… e me ne stimo degno. Ciò che mi si addebita è gloria per me, per i miei maggiori, e torna di vantaggio anche alla patria. Se nell’Ellade si esagera e si sopravvaluta la potenza di Atene, mentre si sperava prima che la guerra l’avesse esaurita, ciò si deve al mio sfarzo in Olimpia: dove presentai sette carri, numero mai raggiunto da un privato, vinsi il primo, il secondo e il quarto premio, e ogni equipaggio fu degno della vittoria. Ciò, dati gli usi, ci fa onore, e intanto dagli effetti si deduce la nostra potenza…»
E così gli Ateniesi, aggiogati dal fascino del politico e dell’olimpionico, affidarono ad Alcibiade il comando militare della delicata spedizione. Che però, purtroppo per loro, si rivelò una catastrofe tale da decretare la sconfitta definitiva di Atene e, quindi, il suo declino culturale oltre che politico ed economico.
Beh ovviamente Alcibiade non procurò direttamente nessun disastro in quella spedizione. Come è noto, la parte politica avversa rimasta praticamente “padrona” di Atene in quanto Alcibiade partì con quasi tutti gli amici e colleghi aggiogo’ il popolo dubbioso e ordinò che il generale rientrasse immediatamente ad Atene per essere giudicato per eventi per i quali pare estraneo (falsi testimoni di suoi antagonisti). Il rientro obbligato avvenne, incredibilmente, a pochi giorni dall’attacco finale della flotta ateniese a Siracusa. Alcibiade fu costretto ad ubbidire, ottenne però di seguire la nave di stato Salamina con la propria. Di notte, rimanendo sempre più a distanza, fuggì verso Argo approfittando di un’isola che lo nascose agli ateniesi. Di fatto se fosse tornato nella capitale attica non avrebbe avuto la minima speranza in tribunale e sarebbe stato quasi certamente messo a morte. In un secondo momento si recò a Sparta dove colto da odio e risentimento spiegò dove era possibile fermare l’attacco alla città siciliana, ma è noto e sicuro che la flotta ateniese si preparasse al rientro in patria data l’impossibilità di Vittoria quando,già imbarcati e pronti alla partenza avvenne inaspettata una eclissi di luna. Nicia, a capo della spedizione, impaurito convocò gli indovini che consigliarono il rinvio della partenza per 27 giorni. Solo ed esclusivamente per quel motivo rimasero incastrati nel porto alla mercé dei siracusani e di un migliaio di spartani che in pratica sterminarono circa diecimila ateniesi. Da notare che parecchi studiosi e storici ritengono che se si fosse lasciato il comando ad Alcibiade (dimostrò in seguito di essere un grande stratega militare vincendo in numerose battaglie navali) il successo sarebbe arriso ad Atene che di conseguenza si sarebbe impadronita dell’intera Sicilia. Il grande sogno di Alcibiade era quello di affrontare poi il solo nemico rimasto nel mediterraneo: Cartagine, ancora lontana dalla potenza che dimostrerà contro Roma. Tacciato di tradimento, accusato di scempio, indicato come visionario, tutto ciò dao suoi avversari politici, Alcibiade non era certo uno sprovveduto, di ricca e nobile famiglia, cresciuto alla luce degli insegnamenti di Socrate, egli era semplicemente un uomo superiore, forse portato allo sfarzo e a qualche errore giovanile, ma fu sicuramente un grande condottiero, non un megalomane ma un personaggio dalla “vista” lunga e sapiente.
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