Pastorale greca, per flauto d’osso e sorriso

Che gli antichi individuassero una forma di eden nella vita dei pastori ce lo ricordiamo ancora noi moderni quando (sempre più raramente) utilizziamo parole come “bucolico”, “pastorale”, “arcadia”. E in effetti nelle arti visive non meno che in tanta letteratura il locus amoenus per eccellenza è dove un pastore si ferma per pascolare le sue greggi: l’ombra di un albero o di una grotta, l’erba tenera su cui distendere le membra (solo o in dolce compagnia), l’acqua di un ruscello e di un laghetto sotto un cielo mite, con qualche nuvola e volo di uccelli. A questi elementi ne vanno aggiunti poi almeno altri due più difficili da rappresentare con parole o linee e colori: i profumi e la musica (“pastorale”, appunto) di uno strumento a corde o di un flauto.

Non di rado, nella letteratura, questo luogo di felicità è contrapposto a uno scenario di guerra cui si è scampati o i cui echi arrivano in lontananza – come nel famoso/famigerato incipit delle Bucoliche di Virgilio: «Tityre tu patulae recubans …». In questo modo la guerra, paradossalmente, si trasforma in fattore di felicità, poiché fornisce ai ‘pastori’ la consapevolezza del proprio privilegio.

Se torniamo al presente, agli ideali smart, tech, fashion & fast delle nostre vite, sembra davvero impossibile rintracciare nella modalità “pastorale” anche un solo aspetto positivo. Eppure ogni volta che sogniamo di “staccare”, magari solo per una vacanza, ecco che il vagheggiamento di una vita più semplice — in un’isola greca, appunto, o alle Maldive o in un deserto, o in un villaggio africano — torna a farsi vivo.

Un fortunato incontro letterario mi ha fatto riflettere su questo immaginario pastorale e, in particolare, su un suo elemento fondamentale e purtroppo — come si accennava — perduto: quello musicale. In effetti, pensavo, ma come doveva essere suggestivo, attraversando uno di quei loci amoeni, sentire all’improvviso il canto armonioso di una voce ben intonata! Oppure le corde di una lira o le modulazioni virtuosistiche di un flauto ricavato dalle canne o dalle ossa di qualche animale. Non a caso tutto questo — il miracolo della musica — era stato variamente ricondotto dai Greci all’operato degli dei. In particolare, nel caso di concerti “pastorali” la divinità di riferimento, come noto, era Pan, inventore di un tipo di flauto (sirynx) e ispiratore di mille concerti meravigliosi e perduti, dalla Grecia arcaica a Debussy.

Nella lettura cui facevo riferimento, grazie all’abilità descrittiva dello scrittore riusciamo ad “ascoltarne” uno, andato in scena in una notte di guerra del 1935.

In “Rumelia. Viaggi nella Grecia del nord”, Patrick Leigh Fermor — vedi qui, per i suoi viaggi nella Grecia del sud — racconta di uno dei suoi primi incontri con i sarakatsani (antica etnia di pastori greci), avvenuto durante la rivoluzione venizelista, dopo la battaglia del ponte di Orliako. Staccatosi dal reparto di cavalleria in cui si era arruolato, Fermor si avventura nei boschi circostanti e al tramonto raggiunge un gruppo di capanne che costituivano la loro base: 

«Lo stani, nella polvere d’oro del tramonto era tutto animato di belati e latrati e campanacci. Pecore e capre, seguite con versi striduli dai loro piccoli e stuzzicate dai cani, venivano convogliate in un recinto semicircolare di vimini e stoppie su un ripido pendio, a suon di grida e fischi laceranti, e in un mulinare di bastoni» (p. 69)

Accolto con iniziale diffidenza, Fermor viene tuttavia invitato a condividere una cena ‘pastorale’ come quella che avrebbe imbandito a Odisseo Polifemo, se fosse stato ospitale; e, come Odisseo, viene invitato a raccontare e poi ripetere il «racconto epico» di tutte le scene di di guerra di cui era stato protagonista. E a questo punto, ricordando come la diffidenza iniziale si era in poche ore tramutata «nell’amichevole sorriso dell’accoglienza», Fermor svela uno dei segreti per cui il contatto con la Grecia e i suoi abitanti va così spesso dritto al cuore di ogni viaggiatore:

«Nelle settimane precedenti avevo cominciato a cogliere uno dei grandi piaceri che la Grecia elargisce benignamente: una connessione diretta, immediata, fra esseri umani, basata su eguaglianza e amicizia, capace di abbattere le barriere di gerarchia, provenienza e censo, e perfino di politica e nazionalità (ad eccezione di poche contese tribali e storiche). Non è un meccanismo che funziona a dispetto delle convenzioni, bensì in una sorta di ignoranza edenica della loro stessa esistenza. L’imbarazzo, la soggezione e il sussiego — e il loro pernicioso rimedio: l’egualitarismo forzato —, gli strascichi feudali e i fremiti post presa della Bastiglia, insomma tutti i deprimenti fattrori che limitano le possibilità e rendono asfittica l’aria dell’Europa occidentale, lì sono assenti. La vita, dicono sguardi come quelli, è un tormento, una nemica, un0’avventura, uno scherzo — e noi l’affronteremo, la metteremo nel sacco, la vivremo e la godremo insieme, compagni nei piaceri e nelle sofferenze» (p. 72)

Patrick Leigh Fermor

Da incanto a incanto, la parte sulla musica pastorale arriva alla pagina successiva:

«Yorgo, il nipote del capo che si era occupato del mio cavallo e mi aveva preso sotto la sua protezione… tirò fuori un lungo flauto d’osso. La musica che cominciò a librarsi nella capanna era commovente, da lasciar senza fiato. Iniziò con note lunghe e gravi, intervallate da pause; poi si slanciò in alto con motivi intricatissimi. Trilli ripetuti e accelerati sfociavano in note acute tenute a lungo, che lasciavabo fremere la melodia a mezz’aria prima di scendere in picchiata di un’ottava tornanbdo alle note lunghe e gravi dell’inizio. Suoni di una limpidezza glaciale si alternvano a suoni increspati e striduli, a tratti rauchi e persino irritanti. Dopo un bel respiro eccoli veleggiare nuovamente in arie acute e cristalline, di una dolcezza toccante; una frase in tono minore tornava insistentemente, a volume sempre più basso, finché alte fioriture prepararono la via al ritorno delle note gravi e prolungate, separate da silenzi sempre più protratti. Non poteva esserci miglior raffigurazione sonora dei monti, delle foreste, delle greggi e della vita nomade»

Quello che si può ottenere da un flauto solo in termini di estetica musicale è effettivamente sorprendente ed è molto interessante che proprio questo strumento sia stato uno dei protagonisti principali delle avanguardie musicali del secolo scorso, da John Cage a Bruno Maderna a Toru Takemitsu.

Atmen, Stefano Agostini, flauto bansuri

E non si dovrà presupporre — per non irritare le divinità che li ispiravano — che gli strumentisti pastorali della Grecia antica non potessero raggiungere notevoli livelli musicali, solo perché autodidatti. Sicuramente aiutati, nelle loro performance, dalla suggestione dei paesaggi e da qualche segreto nella costruzione dei flauti. Come quello di Yorgo, appunto, ricavato dalle ossa di un’aquila attraverso un procedimento in cui si fondono abilità artigianale, religione e magia:

«Dopo aver abbattuto l’aquila e averne pulito l’osso seppellendolo, avrebbe dovuto lasciarlo sotto un altare per quaranta giorni di purificazione e esorcismo, onde neutralizzare il mana negativo di quell’animale, prima di azzardarsi a praticare i fori e portarlo alle labbra»

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