Mia madre, dieci minuti ancora


In un brevissimo racconto di qualche anno fa l’americano David Leavitt affronta un tema ben noto alla letteratura antica, a partire da Omero: incontrare la propria madre dopo la morte.

«La telefonata arrivò. Dopo mesi di laboriose trattative era stato finalmente programmato un incontro con mia madre, morta da tre anni. L’appuntamento era alle dieci di quella mattina all’Aquatic park, vicino al campo da bocce dove si ritrovavano gli Italiani di una certa età»

Così il protagonista s’avvia all’appuntamento. Fuori è una giornata fredda, livida, ventosa. Dentro, finalmente, riesce ad abbandonarsi «a quel dolore che per tre anni avevo tramutato in dissolutezza, panico, impazienza». Nel tragitto ha anche il tempo di avvistare un suicida che si butta dal Golden Gate:

«solo un puntino svolazzante, uno straccio battuto dal vento. Nessun rumore, niente schizzi. Chiunque fosse entrò nell’acqua in silenzio come un tuffatore»

Del resto siamo a San Francisco e l’orizzonte è dominato dal Golden Gate, che è, nel nostro immaginario il ponte per eccellenza e dunque simbolo potente di ciò che ci collega verso un altro mondo — più in basso o più in alto. Ed è appunto qui che la madre gli appare.

«Al parco la scorsi da lontano, un viaggiatore che ha perso il bagaglio, una figura solitaria e spoglia, capitata in un luogo estraneo. Indossava un impermeabile grigio da uomo, troppo grande per lei ...»

Questo sogno, questa illusione, questa fede, questa scommessa, questa follia che ha uno scrittore — un uomo, anzi un figlio — di riabbracciare la propria madre dopo la morte, di dirle cose andate perdute nella distrazione, nell’incomprensione, di riparare torti … deve essere antica come il mondo. Omero la racconta nell’undicesimo libro dell’Odissea, nella famosa scena dell’evocazione degli spiriti dei defunti.

«Così lei parlava e io volevo stringere l’anima della madre mia morta. E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava ad abbracciarla; tre volte dalle mie mani volò via simile a un’ombra, o a un sogno» (XI, vv. 204 sgg.)

Un po’ meglio va, da questo punto di vista, al protagonista del racconto di Leavitt:

«Si fece più vicina, mi raggiunse. Allora ci abbracciammo e io la strinsi come non avevo mai fatto, la strinsi come lei, da madre, mio aveva stretto per anni (e poi per anni non più)»

Dieci minuti soltanto, però! Ma allora può valere la pena? Non servirà soltanto ad acuire il dolore, la mancanza, il senso della morte?

« … con la voce di una ragazzina che sale su un treno che la porterà per la prima volta dal suo piccolo paese alla grande città dei sogni e della speranza disse: “Dio, che bello essere vivi” »

David Leavitt, Che bello essere di nuovo vivi, pubblicato su “La Lettura” del 17 Dicembre 2017

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: