«La testa dell’Auriga ha un’originalità diversa dalle teste marmoree delle epoche posteriori, esprime la giovinezza semplice di un mortale che non assomiglia a nessuna divinità. Il volto mi pare ancora più bello di quello dell’Apollo. Non c’è traccia di divino, il pudore al posto dell’arroganza e la purezza al posto della lussuria sprigionano profumo. Il pudore del vincitore, la purezza luminosa: quanto tale espressione di verità ci colpisce nel cuore! L’arte, assai più che di un soggetto oscuro o serio, è espressione di un’imperfezione»
Nell’Aprile del 1952 Yukio Mishima — giovane ma già circondato da notevole fama letteraria dopo la pubblicazione della sua scandalosa opera prima, Confessioni di una maschera (1948) — è per la prima volta in Grecia e visita Atene e Delfi. Il diario di questo viaggio si apre con parole che non lasciano dubbi sull’importanza dell’esperienza:
«Atene, 24-26 Aprile. La Grecia è la terra che amo. Quando l’aereo ha raggiunto dal mar Ionio il cielo del canale di Corinto, sui monti della Grecia si rifletteva il tramonto e ho visto a ovest risplendere le nuvole serali come un dorato elmo greco. Ho esclamato “Grecia” [ …] Sono in Grecia. Sono ebbro di suprema felicità. Anche se dovrò alloggiare in un albergo sporco di terza categoria perché ho trascurato di prenotare un buon albergo. Anche se, per via dell’inflazione, il cibo in un ristorante ddi prima classe mi costerà settantamila dracme. Anche se sarò l’unico giapponese che soggiorna in questa città. Anche se, non capendo una sola parola di greco, non potrò leggere nemmeno le insegne dei negozi» (p.91)

Le pagine in cui Mishima, cercando di domare l’ebbra parte irrazionale della sua anima — come l’auriga del mito platonico il cavallo nero —, descrive i monumenti dell’acropoli di Atene e poi il santuario e di Delfi sono indubbiamente ricche di notazioni interessanti, dal punto di vista storico e culturale.
Ciò che più di tutto mi colpisce, tuttavia, è constatare una volta di più l’incredibile impatto emotivo, spirituale, epifanico, salvifico (e potrei continuare a lungo 🙂 che in tanti di noi provoca l’entrare in contatto con l’aria, la terra, il mare, il tempo della Grecia: e tanto di più mi colpisce nel caso di un uomo assai colto, certamente, ma le cui radici culturali e spirituali affondavano in una zona lontanissima da lì.
«A cavallo del vento greco che soffia ovunque, sull’Acropoli, intorno alle montagne della Grecia (il Licabetto a est, il Parnaso a Nord), sul golfo di Salonicco, fino all’isola di Salamina davanti a noi, sentiamo un battito d’ali. (è il vento della Grecia! Un vento che mi colpisce il viso, che colpisce i lobi delle orecchie). Ali sono spuntate sulle parti perdute dei ruderi, sulle pietre e sugli uomini. Anche gli uomini qui battono le ali. In fondo al cielo azzurro dell’Acropoli vediamo la vita, sciolto ogni legame, battere le ali e conquistare il mondo invisibile e immortale degli dei. Fra i marmi ondeggiano al vento papaveri rossi, grano selvatico e ranuncoli» (p.94)

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