Per almeno due motivi il cosiddetto “cratere del naufragio”, conservato al Museo archeologico di Pithecusae (Ischia), è un reperto di valore storico enorme: essendo databile alla seconda metà dell’VIII sec. a.C., costituisce il più antico esempio di pittura vascolare figurata finora rinvenuto in Italia; inoltre, la rappresentazione del naufragio che vi campeggia ha pochissimi riscontri in tutta l’arte arcaica e classica ed è per questo tanto più preziosa.

Tutto il campo della raffigurazione proposta è sommerso nell’acqua, come testimonia il fatto che anche l’estremità superiore del bordo è significativamente delimitata da pesci. Quindi lo sguardo è attratto dallo scafo dell’imbarcazione, sommerso e rovesciato per chissà quale sfortunato evento durante navigazione, e ormai pronto ad adagiarsi sui fondali. Da lì gli uomini si sono dispersi in mare, andando incontro al loro triste destino. Pur nell’essenzialità dello stile geometrico quest’ultimo è suggerito variamente: qualcuno, infatti, è immortalato già nell’immobilità della morte, qualcuno ancora muove le braccia, un altro sta diventando pasto di un pesce enorme.
Ho già scritto qui che poche altre opere mi paiono commoventi come questo cratere. Ed è superfluo ricordare quanto sia di tragica attualità in questi anni il pensiero di uomini, donne, bambini che non riusciamo a strappare dall’annegamento nelle acque del Mediterraneo.
C’è però nella destinazione d’uso di questa immagine una stranezza cui ho prestato attenzione solo vedendo il vaso dal vivo — esponendomi, per così dire, alle concrete radiazioni della sua storia .
Un cratere era un contenitore per il vino. Soprattutto se “di lusso” (come questo) era l’oggetto simbolo di quel fondamentale rituale socio-culturale che era il simposio: gli invitati trascorrevano piacevolmente una notte di discussioni, canti, poesia e — naturalmente — eros attingendo a turno con le loro coppe dal cratere posto in mezzo alla sala.

E allora ecco la stranezza: in un momento che doveva essere di gioia, vitalità, spensieratezza per quale motivo ricordare a tutti la tragedia di quel naufragio? Perché porre un “memento mori” al centro delle celebrazioni dell’ebrezza dionisiaca?
Una volta tanto fra i relitti preservati dall’inabissamento di quel mondo troviamo una risposta. Sì, c’è un frammento di letteratura arcaica, costantemente riproposto nelle antologie greche, che messo vicino al cratere di Ischia interagisce con esso: è la cosiddetta “elegia del naufragio”, appunto, che Archiloco avrebbe composto in seguito alla morte per mare di alcuni concittadini — fra cui anche un parente:
«Pericle, il lutto grave di pianto nessuno dei cittadini
biasimerà, e troverà piacere nel banchetto, e neppure la città.
Tali erano gli uomini che le onde del mare risonante
inghiottirono, anche noi gonfi per il dolore abbiamo
i polmoni. Ma gli déi, per i mali irreparabili,
o amico, diedero la forte sopportazione
come rimedio. Queste sventure toccano ora l’uno ora l’altro; adesso a noi
si sono volte, e così piangiamo la ferita sanguinante,
ma presto toccherà ad altri. Ma fin da ora
sopportate, allontanata la femminea afflizione»
(fr. 13 West, trad. A. Aloni)
L’accostamento è interessante non tanto perché aggiunge qualche parola di didascalia alla scena del nostro cratere: «tali erano gli uomini che le onde del mare risonante inghiottirono e anche noi gonfi per il dolore abbiamo i polmoni»; ma piuttosto perché — con riferimento a quanto sappiamo di Archiloco, della sua poesia e del suo pubblico — l’occasione di questi versi potrebbe essere stata proprio un simposio.

Forse Pericle, ipotizziamo, aveva protestato che il lutto per i morti nel naufragio era ancora troppo recente per abbandonarsi a “feste” o anche, più semplicemente, al consumo rituale del vino fra amici e parenti. E questo sarebbe stato lo spunto alla replica del poeta: ai lutti bisogna opporre forte sopportazione, nella consapevolezza che la ruota della vita ora agli uomini porta il bene, ora il male. Senza scordare che, se mai davvero il dialogo ebbe luogo in un simposio, l’altro grande rimedio ai mali era proprio il dono di Dioniso, il vino:
«Il vino spegne i dolori delle persone che soffrono, quando si riempiono della linfa dei grappoli, dispensa il sonno, oblio dei mali di ogni giorno, per le fatiche offre l’unico rimedio. Diòniso è un dio versato in libagioni agli altri dei: grazie a lui gli uomini hanno i beni che hanno.» (Euripide, Baccanti, vv. 259 sgg.)
Forse è proprio in questa prospettiva che va indagato il nesso fra naufragio e vino messo in scena dal cratere di Pithekussai. Nel momento in cui veniva servito ai simposiasti, la sua preziosità, la sua importanza andavano al di là del valore economico e artistico offrendo anche, a chi la sapeva cogliere, una ricchezza spirituale e sapienza. Ciò che, su questo livello più profondo, suggeriva a chi si avvicinava per servirsi il vino può forse attingersi proprio alla letteratura simposiale.
«Carpe diem», potrebbe essere banalmente il monito che scaturisce davanti all’evidenziazione della nostra mortalità — con quale facilità un vento improvviso, una tempesta possono porre fine alla nostra navigazione.
Oppure, sempre in latino — e con più attinenza con il naufragio — il lucreziano:
«Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est»
(De rerum natura, II, 1-4)
Oppure il messaggio potrebbe essere metaforico, anzi ‘metasimposiale’. Giocando, cioè, sull’avvicinamento mare/vino (arcinoto, per esempio, nell’epiteto omerico “mare color del vino”) potrebbe essere un monito a non eccedere nel consumo del dolce rimedio ai mali, per non finire con il naufragarci dentro! Con le conseguenze gravi o persino mortali stigmatizzate in molti miti: chi non ricorda la brutta fine di Polifemo? O cosa successe quando i Centauri si ubriacarono alle nozze di Piritoo?

Ipotesi, ovviamente. Quello su cui insisterei è che la rappresentazione sul cratere non vuole essere arte per l’ arte né ‘fotografia’ di naufragio. Contiene un messaggio, un insegnamento per i simposiasti; che, a mio avviso, sarebbe più pertinente e soddisfacente se inquadrabile all’interno della “sapienza di Dioniso”
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