Quando nell’arca regale l’impeto del vento
e l’acqua agitata la trascinarono al largo,
Danae con sgomento, piangendo, distese amorosa
le mani su Perseo e disse: “O figlio,
quale pena soffro! Il tuo cuore non sa;
e profondamente tu dormi
così raccolto in questa notte senza luce di cielo,
nel buio del legno serrato da chiodi di rame.
E l’onda lunga dell’acqua che passa
sul tuo capo, non odi; né il rombo
dell’aria: nella rossa
vestina di lana, giaci; reclinato
al sonno il tuo bel viso.
Se tu sapessi ciò che è da temere,
il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce.
Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete
abbia il mare; ed il male senza fine,
riposi. Un mutamento
avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre;
e qualunque parola temeraria
io urli, perdonami,
la ragione m’abbandona”
(Simonide, fr. 543 Page — traduzione S. Quasimodo)
***
Il “lamento di Danae” di Simonide di Ceo è senza dubbio una delle testimonianze più commoventi di amor materno tramandate dalla letteratura greca.
La particolarità del mito narrato è che un re — Acrisio, padre di Danae — per sbarazzarsi della nuova generazione destinata a sottragli il potere, e cioè del nipote Perseo, decide di esporlo con la madre non ai pericoli di una foresta ma alla furia del mare.
Non sappiamo con precisione quale parte del Mediterraneo fosse cornice di questa tragedia: se a Ceo, patria di Simonide, o a Serifo, dove immagina il pittore Waterhouse (nomen omen!)
oppure in qualche altra isola greca.
Quello che sappiamo fin troppo bene — anche se non vorremmo — è che da troppi anni l’orrore di questa scena si è ripetuto quasi ogni notte, su mille gommoni non più sicuri dell’arca su cui navigavano Danae e Perseo, gettati fra i flutti dagli Acrisio di turno (africani, certo, ma non soltanto).
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